Ad Aci Sant’Antonio, borgo alle pendici dell’Etna, un piccolo museo racconta un mestiere antico, da cui è nato uno dei simboli dell’Isola più conosciuti in tutto il mondo
di Livio Grasso

Custodisce un’antica tradizione artigianale che si coltiva ancora oggi ad Aci Sant’Antonio, borgo alle pendici dell’Etna. Uno dei luoghi simbolo del borgo è il Museo del carretto siciliano, diventato negli anni anche un’attrazione turistica. “È una tradizione che è stata coltivata dai mastri artigiani negli ultimi cento anni, facendo sì che Aci Sant’Antonio divenisse nel tempo la culla del carretto siciliano”, spiega Gaetano Di Guardo, pittore specializzato nell’arte decorativa del carretto.

Negli anni Trenta del secolo scorso, in questo piccolo paese a pochi chilometri da Catania, si trovava una grande fucina dove un gruppo di artigiani lavorava quotidianamente alla progettazione, costruzione e decorazione dei carretti. Le principali componenti del carretto sono i cosiddetti “masciddara”, i “jammozzi”, la cassa o “cascia” di fuso, le aste e le chiavi. Come spiega l’artista, “i masciddara non sono altro che le fiancate laterali del carretto con tutti i temi figurativi dipinti. I jammozzi, invece, sono i raggi delle ruote dotate di una specifica forma per garantire il massimo grado di stabilità”.

“Importante – sottolinea Di Guardo – è anche la cascia di fuso, ovvero la parte in cui vengono inserite e fissate le ruote. Le chiavi, invece, hanno la funzione di mantenere le aste in direzione parallela ed evitare che nel tempo potessero distorcersi. Quanto alla pittura – prosegue l’artigiano – bisogna sapere che in principio, precisamente nella seconda metà dell’Ottocento, le decorazioni sulle sponde laterali erano scarne e soprattutto applicate per proteggere le parti esposte del legno da eventuali piogge”.

Fino al Settecento i carri erano utilizzati per trasportare merci e macinare parecchi chilometri lungo strade dissestate e di difficile percorribilità. Per buona parte dell’Ottocento le tematiche predilette da parte dei carrettieri erano religiose, prendendo principalmente spunto dalle tavolette votive e da tutti i simboli apotropaici che incarnavano un valore magico e protettivo. Più avanti si diffuse anche il tema dell’epopea cavalleresca, che ben presto fu uno dei repertori stilistici raffigurati nelle fiancate dei carretti.

È tradizione che l’iconografia dei paladini derivi dalla “Chanson de Roland” e dalla “Chanson de geste” narrate dai cantastorie di paese in paese nel corso dei loro viaggi. Agli inizi del Novecento, invece, si consolidò la tendenza di dipingere temi leggendari, fiabeschi, naturalistici e scene tratte dalle opere liriche. Queste raffigurazioni non erano altro che un chiaro riferimento alle così chiamate oleografie popolari a colori.

“Nel tempo, tuttavia – sottolinea Di Guardo – l’arte figurativa subirà una grande evoluzione che segnerà la realtà di ciascuna località siciliana unita alla tradizione del carretto. Si giungerà così alla nascita e alla formazione di diverse scuole che fino ad oggi caratterizzano il versante della Sicilia orientale e quello dell’area occidentale”. Nel caso della scuola di Aci Sant’Antonio, per esempio, esistono delle peculiarità tecnico-decorative che sottintendono un profondo legame con il territorio dei paesi etnei. Dunque, la vivida policromia che si può notare nei suoi esemplari è un “codice stilistico” dietro cui si nascondono importanti valori simbolici. Il rosso cinabro dei carretti non fa altro che alludere all’indissolubile legame del territorio con la lava dell’Etna.

A tal proposito, il pittore osserva che “la bellezza dei carretti non risiede solamente nelle componenti materiali, bensì nel valore emblematico degli apparati decorativi che essi manifestano. I mascheroni, i colori accesi e i paladini rimandano a tutte le culture di quei popoli che hanno lasciato un’impronta indelebile sulla nostra Isola. Perciò, visitare il museo del carretto siciliano – conclude l’artista – significa fare un viaggio nel nostro patrimonio storico, folkloristico e culturale”.