Una scultura settecentesca ne nascondeva un’altra ben più pregiata risalente al 15esimo secolo. Adesso l’opera è tornata a risplendere dopo il restauro nella Cattedrale di San Giovanni Battista
di Antonio Schembri

Per decenni è stato appeso al muro dell’aula capitolare della Cattedrale di San Giovanni Battista, a Ragusa. Quando si è trattato di portarlo giù per sottoporlo a un intervento di restauro, ha svelato una sorpresa emozionante. Quel crocifisso di probabile fattura settecentesca era di fatto il contenitore di un’altra scultura sacra, dello stesso genere. Molto più pregiata, però; e assai più antica, probabilmente databile a cinque, se non a sei secoli fa.

Il fatto di trovare un’opera d’arte “dentro” un’altra non è certo così eccezionale per chi svolge da tempo l’attività di restauratore. Come Sebastiano Patanè, “siciliano di ritorno” con un quasi trentennale itinerario professionale che prima di riportarlo al natìo territorio ibleo, lo ha condotto a partecipare a progetti di ripristino di sculture e opere pittoriche anche all’estero e nel Nord Italia: Liguria, Lombardia e soprattutto nel Veneto, dove ha preso parte a restauri sugli affreschi di Giotto alla Cappella degli Scrovegni, a Padova e su quelli di Tommaso da Modena, custoditi nella basilica dei Santi Vittore e Corona a Feltre, nel Bellunese.

Una volta incaricato di mettere mano sul crocifisso ragusano, Patanè si rende conto che quella statua collocata a cinque metri d’altezza, di probabile fattura settecentesca, comunicasse qualcosa di strano: “Già le iniziali osservazioni sulla sua qualità plastica e pittorica, piuttosto approssimativa, inducevano a dubitare della reale preziosità del manufatto, così come della reale utilità di un restauro. A seguito di indagini stratigrafiche, abbiamo infatti appurato che si trattasse di un grosso involucro con solo poche parti, le braccia soprattutto, riuscite a mantenersi bene nel tempo. E soprattutto abbiamo scoperto che sotto uno strato di gesso, questa statua ne celava un’altra”.

Al di là del genere di contenitore in cui è stata “nascosta”, l’autentica novità sta proprio nel pregio stilistico di quest’altro crocifisso ligneo rimasto nascosto per chissà quanto tempo. E nella sua probabile collocazione storica: “Aprendo e rimuovendo la struttura che l’ha celato e probabilmente salvaguardato per secoli, siamo rimasti meravigliati dagli eccezionali particolari di questa scultura. Per esempio, la torsione dei muscoli del Cristo in croce, i tendini in rilievo e le dita accartocciate”. Qualcosa di raro, insomma, nel patrimonio dei beni mobili artistici della Sicilia. E in particolare di un territorio come quello di Ragusa, dove il sisma del 1693, che devastò la Val di Noto, causò la distruzione e la dispersione di tanti preziosi oggetti d’arte.

Tra le fasi del restauro – illustra Patanè – “una in particolare ha riguardato la ricostruzione della base di gesso al fine di salvaguardare l’originaria scultura lignea. Si è poi proceduto con la riqualificazione estetica, evidenziando i frammenti di pittura originale e colmando le lacune pittoriche con una base neutra di colori a vernice”. Entro la fine del mese – aggiunge il restauratore – si dovrebbe arrivare a acquisire l’esito delle indagini diagnostiche, per stilare una relazione ufficiale da includere in una specifica pubblicazione sul crocifisso ragusano tornato alla luce.

Da adesso in avanti toccherà investigare per sciogliere il mistero sulla collocazione geografica e storica della statua. Ci vorranno esami molto più specifici e approfonditi rispetto a quelli finora svolti dagli stessi restauratori, incluso un attento lavoro archivistico. Materia, insomma, degli storici dell’arte. “Stando all’elevata qualità scultorea e plastica di questa statua lignea, l’ipotesi degli studiosi è che possa risalire al periodo compreso tra la seconda metà del 1400 e il 1500”, sottolinea Giuseppe Burrafato, parroco della Cattedrale di Ragusa, dove dall’inizio della settimana l’opera è esposta dopo essere stata presentata al pubblico con una cerimonia alla quale, tra gli altri, hanno presenziato il vescovo di Ragusa, monsignor Giuseppe La Placa, il presidente del collegio dei deputati questori all’Ars Giorgio Assenza, il sindaco Giuseppe Cassì, e i rappresentanti della azienda agricola Giuseppe Rosso, specializzata nella produzione di conserve.

Proprio questa realtà imprenditoriale locale ha partecipato alle spese per le indagini diagnostiche sulla statua, con un contributo di 1.600 euro, assommatosi ai circa 18mila euro di fondi, raccolti da una parte grazie all’8 per mille in favore della Cei, per una dote di 8mila euro e a 10mila euro erogati dalla Presidenza della Regione Siciliana. Nessun finanziamento, invece, da parte della Soprintendenza ragusana, le cui casse, come quelle delle altre province siciliane, languono. Alla questione della dotazione finanziaria degli organi periferici del Ministero della Cultura si assomma inoltre quella della distribuzione degli storici dell’arte: figure professionali fondamentali nelle attività che si prospettano a seguito di ritrovamenti e conseguenti restauri, come nel caso del crocifisso ragusano.

“Ma la cui presenza nelle soprintendenze siciliane è storicamente insufficiente e maldistribuita con dubbie attribuzioni”, sostiene Paolo Russo, storico dell’arte della Soprintendenza di Enna. “Data la probabile datazione al 15esimo secolo, questo crocifisso di legno rappresenta un’acquisizione di alto valore e dal grande significato per la provincia di Ragusa. Si tratta però di mettere in moto al più presto la macchina dell’analisi storica, non fermandosi a quanto rinvenuto dal restauro di un’opera”. Auspicio che ricorda il concetto espresso decenni addietro da Cesare Brandi, uno dei maggiori critici d’arte del Novecento: “Il restauro costituisce solo il riconoscimento di un’opera”. La lente d’ingrandimento deve insomma passare necessariamente agli storici per più accurate azioni di ricerca documentale. Quelle che da adesso attende l’ultimo crocifisso ritrovato.