Era al centro del symposium, un’occasione durante la quale i greci amavano non solo bere insieme, ma anche discutere e filosofeggiare. Oggi la viticultura siciliana costituisce il settore più importante dell’economia agricola dell’Isola

Secondo Erodoto, il dio del vino Dioniso, “era stato il primo ad aggiogare i buoi, e aveva mostrato agli uomini, che fino ad allora avevano lavorato la terra con le proprie mani, molte invenzioni utili al contadino”. Il vino era al centro del symposium, un’occasione durante la quale i greci amavano non solo “bere insieme” (questo il significato letterale della parola), ma anche discutere e filosofeggiare. Posto in anfore, il vino era esportato in tutto il Mediterraneo; era molto denso e doveva venire diluito con acqua per essere bevuto.
Per questo scopo venivano usati i crateri, grandi vasi nei quali alla bevanda si aggiungevano anche spezie, radici, fiori e foglie di rosa; dalla forma del vaso prende nome il cratere del vulcano, e non viceversa. Con il vino i greci si dilettavano follemente in uno dei loro giochi preferiti, il kottabos, assai bene illustrato su innumerevoli esemplari di kylix, la coppa con un piede e due anse orizzontali usata per bere la bevanda. Il kottabos consisteva nel gareggiare nel lancio dei fondi di vino facendo girare la coppa intorno a un dito. Per Omero il mare in tempesta ha “il colore del vino”, una metafora ripetuta molte volte nell’Odissea: le analogie tra vino, mare, navigazione ed simposio sono numerose; i convitati riuniti al simposio sembrano formare un unico equipaggio pronto ad affrontare la medesima traversata, ed è affascinante l’associazione tra vino, mare, nave e sala del simposio.
Nel mondo classico il vino come bevanda alcolica aveva sostituito la birra prevalente in Egitto e Mesopotamia: era considerato il “sangue di Dioniso”, il cui nome significava “figlio di Dio” nella lingua traco-frigia. Una terminologia certamente a noi molto familiare, giacché era destinata ad essere così entusiasticamente adottata nei secoli successivi dal Cristianesimo. Un paradosso rimaneva insolubile: da un lato il vino genera civiltà, felicità ed entusiasmo, dall’altro il suo contenuto alcolico porta alla trasgressione e alla follia, i suoi effetti possono essere funesti o illuminanti. I riti orgiastici e misterici sopravvissero fino al II secolo dopo Cristo, quando i Baccanali furono proibiti dal Senato Romano: i satiri itifallici che pestavano il mosto, sui sarcofagi romani divennero cherubini che raccoglievano l’uva.
Il trattato De Re Rustica di Columella (I secolo dopo Cristo) descrive con dovizia di particolari il particolare falcetto con cui i romani potavano le viti, uno strumento che i contadini siciliani chiamavano runcigghiu e che si è conservato identico per duemila anni fino agli inizi del ‘900 quando fu sostituito dalle forbici. Esattamente come nelle nostre vecchie masserie, i palmenti delle ville romane erano dotate di una finestra da cui l’uva veniva gettata direttamente nel lacus, la vasca dove sarebbe stata pigiata con i piedi.
Dopo aver pressato le vinacce nei torchi, i romani facevano quindi fermentare il mosto in giare in terracotta (dolia, per i greci pithoi) interrate nel pavimento dei palmenti. Il vino poteva essere invecchiato artificialmente in una cantina (apotheca o fumarium) esposta ai fumi delle cucine. I romani avevano una cinquantina di varietà di uva da tavola e al vino attribuivano svariati usi medicinali, in particolare se mischiato al miele (mulsum).
È stato calcolato che fra i romani il consumo medio pro capite di vino era fra i 210 e i 260 litri all’anno (tra un quarto e tre quarti di litro al giorno) e certamente il vino correva a fiumi in occasione dei convivia durante i quali, specie in epoca imperiale, l’orgia e la trasgressione rimpiazzarono la misura e la raffinatezza del symposium greco. Plinio e il geografo Strabone esaltarono la bontà della bevanda, Strabone lodò i vini dell’Etna e Varrone affermò che al suo tempo esistevano già 185 vitigni. Grazie ai numerosi contatti fra la Sicilia e la civiltà minoico-cretese in epoca preistorica, sembra che sull’Isola la vite fosse già presente e che il vino fosse già conosciuto al tempo della colonizzazione greca.
La viticultura siciliana con 156000 ettari di territorio coltivato (di cui circa la metà sono nella sola provincia di Trapani), costituisce il settore più importante dell’economia agricola dell’Isola. Nella seconda parte dell’800 la fillossera uccise gran parte dei vigneti siciliani, che vennero sostituiti con barbatelle di viti americane che mostrarono invece ottima resistenza al terribile flagello.
La varietà e la qualità dei vini siciliani hanno subito nei secoli molte fasi alterne, ma da qualche decennio conoscono un costante e riconosciuto miglioramento, e la produzione sfiora i 8.5 milioni di ettolitri annui. Tra i numerosi vitigni presenti nell’Isola (sia autoctoni che alloctoni) ne esiste uno che ha la particolarità di essere in grado di crescere per tre o quattro mesi all’anno nell’acqua: è l’Alicante che il re Ferdinando III di Borbone importò dalla Spagna nella contea di Nelson vicino Randazzo, e che sopravvive benissimo quando le acque del fiume Flascio riempiono per esondazione il lago Gurrida. Per coltivare queste viti così particolari è necessario l’uso di vere e proprie palafitte.
Accanto ai vini da tavola c’è in Sicilia un vasto assortimento di vini liquorosi, dal celebre Marsala, al Sambuca, e alla Malvasia delle Isole Eolie, corruzione di Monemvasia, la splendida città fortificata del Peloponneso, da dove i veneziani avevano importato il vitigno.
Era al centro del symposium, un’occasione durante la quale i greci amavano non solo bere insieme, ma anche discutere e filosofeggiare. Oggi la viticultura siciliana costituisce il settore più importante dell’economia agricola dell’Isola

Secondo Erodoto, il dio del vino Dioniso, “era stato il primo ad aggiogare i buoi, e aveva mostrato agli uomini, che fino ad allora avevano lavorato la terra con le proprie mani, molte invenzioni utili al contadino”. Il vino era al centro del symposium, un’occasione durante la quale i greci amavano non solo “bere insieme” (questo il significato letterale della parola), ma anche discutere e filosofeggiare. Posto in anfore, il vino era esportato in tutto il Mediterraneo; era molto denso e doveva venire diluito con acqua per essere bevuto.
Per questo scopo venivano usati i crateri, grandi vasi nei quali alla bevanda si aggiungevano anche spezie, radici, fiori e foglie di rosa; dalla forma del vaso prende nome il cratere del vulcano, e non viceversa. Con il vino i greci si dilettavano follemente in uno dei loro giochi preferiti, il kottabos, assai bene illustrato su innumerevoli esemplari di kylix, la coppa con un piede e due anse orizzontali usata per bere la bevanda. Il kottabos consisteva nel gareggiare nel lancio dei fondi di vino facendo girare la coppa intorno a un dito. Per Omero il mare in tempesta ha “il colore del vino”, una metafora ripetuta molte volte nell’Odissea: le analogie tra vino, mare, navigazione ed simposio sono numerose; i convitati riuniti al simposio sembrano formare un unico equipaggio pronto ad affrontare la medesima traversata, ed è affascinante l’associazione tra vino, mare, nave e sala del simposio.
Nel mondo classico il vino come bevanda alcolica aveva sostituito la birra prevalente in Egitto e Mesopotamia: era considerato il “sangue di Dioniso”, il cui nome significava “figlio di Dio” nella lingua traco-frigia. Una terminologia certamente a noi molto familiare, giacché era destinata ad essere così entusiasticamente adottata nei secoli successivi dal Cristianesimo. Un paradosso rimaneva insolubile: da un lato il vino genera civiltà, felicità ed entusiasmo, dall’altro il suo contenuto alcolico porta alla trasgressione e alla follia, i suoi effetti possono essere funesti o illuminanti. I riti orgiastici e misterici sopravvissero fino al II secolo dopo Cristo, quando i Baccanali furono proibiti dal Senato Romano: i satiri itifallici che pestavano il mosto, sui sarcofagi romani divennero cherubini che raccoglievano l’uva.
Il trattato De Re Rustica di Columella (I secolo dopo Cristo) descrive con dovizia di particolari il particolare falcetto con cui i romani potavano le viti, uno strumento che i contadini siciliani chiamavano runcigghiu e che si è conservato identico per duemila anni fino agli inizi del ‘900 quando fu sostituito dalle forbici. Esattamente come nelle nostre vecchie masserie, i palmenti delle ville romane erano dotate di una finestra da cui l’uva veniva gettata direttamente nel lacus, la vasca dove sarebbe stata pigiata con i piedi.
Dopo aver pressato le vinacce nei torchi, i romani facevano quindi fermentare il mosto in giare in terracotta (dolia, per i greci pithoi) interrate nel pavimento dei palmenti. Il vino poteva essere invecchiato artificialmente in una cantina (apotheca o fumarium) esposta ai fumi delle cucine. I romani avevano una cinquantina di varietà di uva da tavola e al vino attribuivano svariati usi medicinali, in particolare se mischiato al miele (mulsum).
È stato calcolato che fra i romani il consumo medio pro capite di vino era fra i 210 e i 260 litri all’anno (tra un quarto e tre quarti di litro al giorno) e certamente il vino correva a fiumi in occasione dei convivia durante i quali, specie in epoca imperiale, l’orgia e la trasgressione rimpiazzarono la misura e la raffinatezza del symposium greco. Plinio e il geografo Strabone esaltarono la bontà della bevanda, Strabone lodò i vini dell’Etna e Varrone affermò che al suo tempo esistevano già 185 vitigni. Grazie ai numerosi contatti fra la Sicilia e la civiltà minoico-cretese in epoca preistorica, sembra che sull’Isola la vite fosse già presente e che il vino fosse già conosciuto al tempo della colonizzazione greca.
La viticultura siciliana con 156000 ettari di territorio coltivato (di cui circa la metà sono nella sola provincia di Trapani), costituisce il settore più importante dell’economia agricola dell’Isola. Nella seconda parte dell’800 la fillossera uccise gran parte dei vigneti siciliani, che vennero sostituiti con barbatelle di viti americane che mostrarono invece ottima resistenza al terribile flagello.
La varietà e la qualità dei vini siciliani hanno subito nei secoli molte fasi alterne, ma da qualche decennio conoscono un costante e riconosciuto miglioramento, e la produzione sfiora i 8.5 milioni di ettolitri annui. Tra i numerosi vitigni presenti nell’Isola (sia autoctoni che alloctoni) ne esiste uno che ha la particolarità di essere in grado di crescere per tre o quattro mesi all’anno nell’acqua: è l’Alicante che il re Ferdinando III di Borbone importò dalla Spagna nella contea di Nelson vicino Randazzo, e che sopravvive benissimo quando le acque del fiume Flascio riempiono per esondazione il lago Gurrida. Per coltivare queste viti così particolari è necessario l’uso di vere e proprie palafitte.
Accanto ai vini da tavola c’è in Sicilia un vasto assortimento di vini liquorosi, dal celebre Marsala, al Sambuca, e alla Malvasia delle Isole Eolie, corruzione di Monemvasia, la splendida città fortificata del Peloponneso, da dove i veneziani avevano importato il vitigno.