L’opera è stata sottoposta a un delicato intervento conservativo con moderne tecnologie, adesso è in mostra a Palazzo Abatellis
di Guido Fiorito

C’è tempo fino al 2 febbraio per vedere a Palazzo Abatellis, a Palermo, la Sacra Cassa, ovvero un altare ligneo del Cinquecento di eccezionale qualità. Poi tornerà nei magazzini del museo, pronta a riemergere per buone occasioni. È un’opera per certi versi misteriosa, perché non si sa chi l’abbia realizzata, da dove provenga e perché sia arrivata in Sicilia. Al contrario, grazie ad un attento restauro, conosciamo tutto di lei come oggetto d’arte: materiali utilizzati, disegni preparatori, com’è stato assemblato.

Sacra Cassa è una definizione data dell’abate Di Blasi, giunto a guidare l’abbazia di San Martino nell’ultima parte del Settecento, dopo essersi occupato di collezioni, archivi e biblioteche in varie parti d’Italia. Nell’abbazia costruisce un museo con la sua collezione, che comprende l’altare e che, quando saranno espropriati i beni ecclesiastici dopo l’Unità, andrà a finire nel museo nazionale dell’Olivella e poi a Palazzo Abatellis, dov’era custodita nel magazzino numero 4. Da qui è stata prelevata per portarla nei laboratori del museo, per un restauro durato otto anni e di cui di sono occupati ben sette direttori della Galleria. Tra l’altro vi sono raffigurate storie della Madonna e la nascita di Gesù. Anche se il bambinello, al centro, è stato perduto.

L’origine dell’altare, come ha chiarito Giuseppe Abbate, che l’ha studiato e confrontato con opere simili, è con tutta probabilità fiamminga. “Esiste un’opera simile sull’altare di Megen nel Brabante, oggi Olanda – dice -. Anversa era la capitale di questo tipo di opere che venivano costruite con un processo di serializzazione”. Una sorta di trittico d’altare, con la parte centrale scolpita in legno, chiuso nei giorni feriali, a mostrare un retro anch’esso dipinto. Un’opera concepita dal pittore e realizzata da una bottega che comprendeva scultori, falegnami e fabbri. Venivano realizzati tanti pezzi di legno scolpito poi assemblati sullo sfondo e impreziositi dalla decorazione a foglia d’oro.

“La tradizione antica delle botteghe – dice Evelina De Castro, direttore della Galleria, che ha promosso una giornata di studi sull’opera – si è incontrata con la nostra moderna teoria del restauro e le nuove tecniche diagnostiche”. L’altare è stato completamente smontato, pezzo dopo pezzo, e poi si è proceduto al restauro, illustrato a nome di tutti gli operatori da Arabella Bombace: “Il degrado era ai vari livelli: la struttura sconnessa, i buchi con gli insetti xilofagi. Resti di detriti sotto le architetture, di semi e fogliame, come fosse stato conservato vicino un giardino. Molte abrasioni e ritiro dimensionale delle fibre di legno con degrado superficiale e perdite di colore, broccati danneggiati. Abbiamo classificato ciò che si era staccato, frammenti molto piccoli, punte di guglie, con difficoltà a reinserirli al posto corretto”.

Un rompicapo per risolvere il quale sono state usate tecniche moderne, riflessografia infrarossa, tac, fluorescenza a raggi X, fluorescenza UV, spettroscopia Raman, con l’intervento di studi privati e studiosi dell’Università di Palermo. Sappiamo adesso che sono stati usati vari tipi di legno, la quercia per la cassa, il noce per le sculture, mentre del pioppo si è rivelato un’aggiunta successiva. Classificati i pigmenti usati per la pittura: verderame (o forse malachite) per il verde, azzurrite per il blu, giallo di piombo, rosso cinabro mescolati con biacca. Il restauro è stato conservativo, lasciando come si usa, visibili a un esame ravvicinato punti degli interventi. Per ripristinare la chiusura corretta dell’altare sono state introdotte viti occultate in testa da tappi che sembrano chiodi. L’opera è stata perfino riprodotta in digitale in 3D e si è stampata anche una colonnina mancante che poi è stato deciso di non ripristinare. Un lavoro lungo e impegnativo, che lascia spazio oggi all’ammirazione della bellezza ritrovata dell’opera.