Alla scoperta dell’ex sede dei padri liguorini, che custodisce gli arredi e le collezioni d’arte dei missionari redentoristi
di Beniamino Biondi

Se la Biblioteca Lucchesiana di Agrigento, una delle più antiche e prestigiose istituzioni culturali della Sicilia, rappresenta un tassello ineguagliabile di quel mosaico di preziosità storiche e identitarie che è la via Duomo, dove il profilo della città sconfina al cielo più azzurro e a un’idea di abbraccio urbano dell’intero centro storico, ciò lo si deve di certo alla figura di monsignor Andrea Lucchesi Palli dei principi di Campofranco, che la fondò nel 1765.

Sorretto da profondo spirito cristiano e da una notevole cultura, nel solco di quel cosmopolitismo umanistico sensibile al pensiero illuminista e all’educazione popolare come strumento di affrancamento sensibile, Lucchesi Palli costituì una immensa raccolta erudita e antiquaria che oggi offre all’uomo l’idea di un sapere progressivo e dialettico – speculare, com’è del resto nella collocazione dei volumi su ampie librerie contrapposte -, grazie anche alle cure fervide e doviziose del suo direttore, don Angelo Chillura. Fu proprio monsignor Andrea Lucchesi Palli, vescovo della Diocesi, a invitare ad Agrigento i redentoristi, che, alloggiati nei primi anni presso lo stabilimento gioenino, ebbero diversi incarichi pastorali e missionari fondando nella città una delle loro prime e più importanti case.

A loro venne affidato il delicato compito di aver cura della biblioteca che aveva cominciato a realizzare e che con un testamento donò al pubblico, e nel 1840 i padri liguorini avviarono i lavori per la costruzione di una chiesa dedicata a Sant’Alfonso, erigendola accanto al Palazzo Vescovile, prima chiesa del mondo dedicata a questo santo. Nella seconda metà dell’800 l’edificio è stato decorato con stucchi di Vincenzo Signorello e con il ciclo pittorico dell’artista siciliano Giovanni Patricolo, e all’inizio del secolo successivo è stato costruito il campanile che oggi rappresenta il punto più alto di Agrigento.

Nel luglio del 1966 la Chiesa di Sant’Alfonso, come molte altre chiese del centro storico, subisce seri danni a causa della frana del 14 luglio, rimanendo soprattutto lesionata la volta della navata. Con lettera datata 31 maggio 2019, il superiore provinciale della Provincia Napoletana della Congregazione del Santissimo Redentore, della quale la comunità dei padri redentoristi di Agrigento fa parte, comunicava all’arcivescovo di Agrigento che, per la penuria di vocazioni e l’età avanzata dei padri della comunità redentorista della città, il Capitolo provinciale aveva definitivamente deciso la chiusura della comunità.

Viene meno la lunga e felice stagione di padre Giuseppe Russo, che in venti anni di servizio nella comunità redentorista di Agrigento ha svolto un’importante opera pastorale, culturale e di qualificazione delle strutture, e rimane vivo il rammarico del cardinale Francesco Montenegro per “una storia di amore e di servizio” interrotta dopo secoli con l’auspicio che tempi migliori possano riannodare quel legame forte – oggi interrotto – con una nuova presenza redentorista nell’Arcidiocesi. La storia muta, per un suo preciso diritto, e rimangono i luoghi sacri, che non sono mai materia muta ma custodi di pietra della finitudine dell’uomo e della fede in Dio.

La casa-museo di Sant’Alfonso custodisce gli arredi e le collezioni d’arte dei missionari redentoristi di Agrigento, così come sono presenti in una pregiatissima pubblicazione dal titolo “Arredi e Collezioni dei Padri Liguorini di Agrigento. Tutela e Conservazione”, un’opera che fa storia con la densa scrittura di Gabriella Costantino, soprintendente di Agrigento ora a riposo. Il ripensamento degli spazi, e soprattutto la rifunzionalizzazione dei luoghi in termini di decoro vero e di armonia spirituale, si inserisce nel solco del lavoro compiuto con chiarezza di intenti e rigorosa meticolosità da don Giuseppe Pontillo, direttore dell’Ufficio Beni culturali ecclesiastici della Diocesi, ed è per buona parte merito e opera di un giovane parroco, don Gero Manganello, che ha dalla sua lucidità di pensiero e grande forza di volontà.

Proprio durante i primi mesi della pandemia, ha profittato di un tempo di clausura sociale per tradurre in una maggiore salvaguardia il senso più nobile di questa casa-museo, a segno dello stupore che questi luoghi offrono al visitatore che ne varca le soglie, nell’auspicio – com’è della Diocesi – che un giorno sia reso possibile l’accesso alla Biblioteca Lucchesiana proprio da questo luogo, cioè riconfigurando il prestigio dell’ingresso originario di questo ampio percorso dentro l’enorme palazzo, che nel punto più alto da una porticina conduce sul bellissimo terrazzo di quello che fu l’antico castello di Agrigento.

È impossibile non citare il lavoro di sistemazione di un bellissimo giardino interno, una sorta di oasi in un recinto di tufo, in cui il silenzio s’indora del profumo degli aranci, e una stanza riposta, interna, con arco a volta, che fino a poco tempo prima era stata un magazzino di cianfrusaglie disordinate e ora ha assunto la forma di luogo di preghiera, quasi una sosta di ristoro spirituale. La casa-museo di Sant’Alfonso in qualche maniera inizia proprio da questa stanza; e sì che è meno pregiata del resto, con le sue pareti nude e un romantico altarino sul fondo, ma concentra le sue emozioni su un crocifisso, in una solitudine assoluta, nel mistero di quella fede che è possibile ritrovare anche laddove giacevano minutaglie e roba vecchia.