Eseguita per la prima volta una Tac tridimensionale sui reperti dell’imbarcazione punica e di quella romana custoditi al Museo archeologico Lilibeo di Marsala. Svelati i materiali, le tecniche, i parassiti.
di Federica Certa
Un fascio di raggi X per penetrare l’anima del legno e svelare i segreti della costruzione delle navi puniche e romane.
È il primo esperimento di questo genere – l’applicazione di tecnologie di diagnostica ad alta specializzazione – condotto su reperti lignei rimasti per secoli sul fondo del mare. E a portarlo avanti è stato il dipartimento di Scienze radiologiche dell’Università di Palermo, diretto da Massimo Midiri, con il GruppoArte 16, coordinato da Giovanni Taormina, e la supervisione tecnica del professor Franco Fazzio dell’Istituto per la conservazione e il restauro di Roma.
Le parti superstiti di due imbarcazioni, entrambe conservate nel Museo archeologico Lilibeo di Marsala – una romana, la più grande mai ritrovata, risalente al IV dopo Cristo e rinvenuta nel 1999 nel mare di Marausa, e una punica, risalente al III secolo avanti Cristo e scoperta nel 1971 al largo della costa marsalese, unico esemplare rimasto a testimoniare la raffinata arte navale dei Fenici – sono state sottoposte all’esame di una Tac tridimensionale, che ha permesso di ottenere immagini molto dettagliate di aree specifiche delle sezioni del legno del fasciame. Le parti del fasciame dello scafo sono state così “affettate” in strati sottilissimi, che come gli anelli concentrici sul tronco di un albero hanno raccontato la perizia artigiana degli antichi popoli del Mediterraneo.
“Con questo tipo di indagini – spiega Midiri – l’analisi archeologica si sposta dall’esterno all’interno del manufatto. Abbiamo così creato una scheda digitale dei reperti delle due navi, che cristallizza il loro stato di conservazione nel tempo, a disposizione dell’archivio della Soprintendenza del mare e dei ricercatori che lavoreranno in futuro”.
“Sono indagini di estrema importanza – aggiunge Taormina – che hanno permesso di capire come si è conservato il legno per oltre duemila anni, sia quello utilizzato nella nave romana, di conifera, più leggero, sia quello della nave punica, probabilmente cedro del Libano, più pesante ma anche più robusto”.
Grazie alla successiva ricostruzione al computer, è stato poi possibile individuare le caratteristiche più profonde di materiali e tecniche peculiari: gli incastri perfetti tra costole e madieri nella nave romana; la presenza di piombo e tracce di bronzo all’esterno di quella punica, realizzata con la tecnica del “guscio portante”.
I reperti sono stati inoltre analizzati per individuare eventuali cunicoli di larve, spore o cellule parassite dormienti, che potrebbero compromettere la stabilità dello scafo.
I dati acquisiti saranno utilizzati per intervenire sul fasciame ligneo con le nanotecnologie, già testate su un piccolo campione della nave romana e fornite dalla società milanese “4Ward 360”, titolare del brevetto. “Si tratta di tecnologie particolari – dice l’amministratore delegato Sabrina Zuccalà – che hanno permesso di creare un prodotto unico e specifico per le navi di Marsala, delle nano-particelle che rivestiranno completamente i reperti in maniera non invasiva e che li proteggeranno dagli agenti esterni e dall’usura del tempo”.
L’operazione è stata eseguita sotto la supervisione dell’assessorato regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana, guidato da Sebastiano Tusa e diretto da Sergio Alessandro, del responsabile unico del progetto di recupero, l’architetto Stefano Zangara, e dell’architetto della Soprintendenza del mare, Enrico Lercara.
“È la prima volta che in Italia viene effettuata un’investigazione scientifica così approfondita su reperti lignei di navi rimaste per secoli nei fondali marini – ha commentato Tusa – eseguita per poi giungere a una ipotesi di restauro conservativo con le nanotecnologie”.
Eseguita per la prima volta una Tac tridimensionale sui due importanti reperti custoditi al Museo archeologico Lilibeo di Marsala. Svelati i materiali, le tecniche, i parassiti.
di Federica Certa
Un fascio di raggi X per penetrare l’anima del legno e svelare i segreti della costruzione delle navi puniche e romane.
È il primo esperimento di questo genere – l’applicazione di tecnologie di diagnostica ad alta specializzazione – condotto su reperti lignei rimasti per secoli sul fondo del mare. E a portarlo avanti è stato il dipartimento di Scienze radiologiche dell’Università di Palermo, diretto da Massimo Midiri, con il GruppoArte 16, coordinato da Giovanni Taormina, e la supervisione tecnica del professor Franco Fazzio dell’Istituto per la conservazione e il restauro di Roma.
Le parti superstiti di due imbarcazioni, entrambe conservate nel Museo archeologico Lilibeo di Marsala – una romana, la più grande mai ritrovata, risalente al IV dopo Cristo e rinvenuta nel 1999 nel mare di Marausa, e una punica, risalente al III secolo avanti Cristo e scoperta nel 1971 al largo della costa marsalese, unico esemplare rimasto a testimoniare la raffinata arte navale dei Fenici – sono state sottoposte all’esame di una Tac tridimensionale, che ha permesso di ottenere immagini molto dettagliate di aree specifiche delle sezioni del legno del fasciame. Le parti del fasciame dello scafo sono state così “affettate” in strati sottilissimi, che come gli anelli concentrici sul tronco di un albero hanno raccontato la perizia artigiana degli antichi popoli del Mediterraneo.
“Con questo tipo di indagini – spiega Midiri – l’analisi archeologica si sposta dall’esterno all’interno del manufatto. Abbiamo così creato una scheda digitale dei reperti delle due navi, che cristallizza il loro stato di conservazione nel tempo, a disposizione dell’archivio della Soprintendenza del mare e dei ricercatori che lavoreranno in futuro”.
“Sono indagini di estrema importanza – aggiunge Taormina – che hanno permesso di capire come si è conservato il legno per oltre duemila anni, sia quello utilizzato nella nave romana, di conifera, più leggero, sia quello della nave punica, probabilmente cedro del Libano, più pesante ma anche più robusto”.
Grazie alla successiva ricostruzione al computer, è stato poi possibile individuare le caratteristiche più profonde di materiali e tecniche peculiari: gli incastri perfetti tra costole e madieri nella nave romana; la presenza di piombo e tracce di bronzo all’esterno di quella punica, realizzata con la tecnica del “guscio portante”.
I reperti sono stati inoltre analizzati per individuare eventuali cunicoli di larve, spore o cellule parassite dormienti, che potrebbero compromettere la stabilità dello scafo.
I dati acquisiti saranno utilizzati per intervenire sul fasciame ligneo con le nanotecnologie, già testate su un piccolo campione della nave romana e fornite dalla società milanese “4Ward 360”, titolare del brevetto. “Si tratta di tecnologie particolari – dice l’amministratore delegato Sabrina Zuccalà – che hanno permesso di creare un prodotto unico e specifico per le navi di Marsala, delle nano-particelle che rivestiranno completamente i reperti in maniera non invasiva e che li proteggeranno dagli agenti esterni e dall’usura del tempo”.
L’operazione è stata eseguita sotto la supervisione dell’assessorato regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana, guidato da Sebastiano Tusa e diretto da Sergio Alessandro, del responsabile unico del progetto di recupero, l’architetto Stefano Zangara, e dell’architetto della Soprintendenza del mare, Enrico Lercara.
“È la prima volta che in Italia viene effettuata un’investigazione scientifica così approfondita su reperti lignei di navi rimaste per secoli nei fondali marini – ha commentato Tusa – eseguita per poi giungere a una ipotesi di restauro conservativo con le nanotecnologie”.