Vucciria, Sant’Agata e la salsa di pomodoro

Tanti i cori di sdegno per una campagna pubblicitaria di sughi pronti, ispirata ai luoghi comuni siciliani, ma gli stereotipi sono sempre stati pane del miglior impasto per i fabbricatori di réclame

Totò Rizzo - Giornalista

Ci attacchiamo al pelo o lo cerchiamo nell’uovo. Meglio, nella salsa. Più precisamente in quella di pomodoro datterino. Come siamo suscettibili, per non dire permalosi. Arriva la Barilla e lancia una campagna pubblicitaria dei suoi nuovi sughi pronti, mirata, casa per casa, si potrebbe esagerare per amore di semicitazione. Comun denominatore la dolcezza del prodotto che viene però paragonata “ai colori della Vucciria” (per la capitale dell’Isola) o alla “mattina del 5 febbraio” (per la città ai piedi dell’Etna). Apriti cielo! Via ai cori di sdegno, all’identità camuffata ad uso slogan o addirittura tradita, alla critica impietosa ad un passato che non è più presente o addirittura ad un sentimento religioso che non si può certo paragonare al condimento per un piatto di spaghetti (rigorosamente numero 5, ca va sans dire).

Al di là dello stantio sbuffare con retropensiero polemico-politico (l’immondizia, il degrado dei centri storici, la pubblica incuria sia per Palermo che per Catania) ci si pongono quesiti da non dormirci la notte. Si sono accertati, i pubblicitari della Barilla, che alla Vucciria ci sia ancora un rosso così dolce come quello della salsa che producono? E hanno mai testato di persona la dolcezza dell’alba agatina (il 5 febbraio è il giorno in cui culminano i festeggiamenti per la patrona) sulla quale sfoderano tutta questa sapienza? Sanno che le “balate” del popolare mercato di Palermo – sempre meno mercato ma isola dello street food – sono per lo più asciutte contraddicendo una rappresentazione classica che le voleva sempre bagnate (dall’acqua che i commercianti gettavano sui pesci o sulle verdure per renderne più vividi per l’appunto i colori oltre che la presunta freschezza)? Cosa possono intuire di quel sentire misto sacro-profano che accompagna i catanesi nei giorni della loro Santa ed in specie nell’ultimo, di quella dolcezza sudata e sfinita, di quel rosso passione mistica che anima ancora come per miracolo quell’epilogo di festa?

Ci sono occasioni in cui i siciliani inalberano un orgoglio degno di miglior causa. D’altronde il luogo comune è sempre stato – nella sua accezione tout court, di semplice citazione iconografica o verbale, o nella sua mutazione parodistica – pane del miglior impasto per i fabbricatori di réclame, materia prima da inzuppare (proprio come si fa con il pane nella salsa di pomodoro bollente che ha appena finito di borbottare nel tegame) nella loro fantasia. Che poi il risultato sia stato più o meno felice, questo attiene alla bravura del pubblicitario, all’efficacia del messaggio.

Avessimo sempre questa così autorevole consapevolezza di noi, coltivassimo sempre questa vis polemica, non dovremmo aver più fiato, allora, per recriminare contro Dolce & Gabbana – per fare un esempio che oggi suona, vedi caso, un po’ crudele dopo il recente “affaire” cinese – visto che da almeno un ventennio i due stilisti (e Dolce è siculo di Polizzi) offrono – tra pubblicità e sfilate – una visione arcaico-folkloristica della Sicilia, con scialli per le donne e coppole per i maschi e fichidindia e colonne di templi greci in mezzo ai quali infilare abiti da sera, borsette, profumi e quant’altro. Non dovremmo più rivedere (anzi, dovremmo bandire dai nostri archivi) tutti gli sketches storici dei grandi comici che hanno irriso i difetti antropologico-lessicali del prototipo isolano. Certo si potrebbe applaudire, al contrario, a tentativi defolclorizzanti come quelli esperiti da altri artisti o creativi, come ha fatto Emma Dante mettendo in scena non solo i suoi estemporanei “mafiosi” di “Cani di bancata” ma confrontandosi con quel capolavoro del verismo musicale che è “Cavalleria rusticana” che dal Comunale di Bologna sta adesso girando per altri teatri lirici, e dove la tragica domenica di Pasqua di Turiddu e Alfio è improntata a una tale scarnificazione, a un tale rifiuto dell’iconografia tradizionale che collasserebbero fragorosamente ruote e paracarri del vecchio, ipercolorato carretto che una volta si portava in scena con cavallo vivente.

Un passo indietro, dunque, per favore. Sempre di una salsa di pomodoro stavolta si tratta. E se proprio vogliamo amorevolmente preservare, se non vogliamo che si creino equivoci, se non ci piace sentirci scalfiti nella sensibilità identitaria, attrezziamoci per dare un senso presente al passato, criticamente, senza bollori da consorterie, curve sud e fan club.

Tanti i cori di sdegno per una campagna pubblicitaria di sughi pronti, ispirata ai luoghi comuni siciliani, ma gli stereotipi sono sempre stati pane del miglior impasto per i fabbricatori di réclame

Totò Rizzo - Giornalista

Ci attacchiamo al pelo o lo cerchiamo nell’uovo. Meglio, nella salsa. Più precisamente in quella di pomodoro datterino. Come siamo suscettibili, per non dire permalosi. Arriva la Barilla e lancia una campagna pubblicitaria dei suoi nuovi sughi pronti, mirata, casa per casa, si potrebbe esagerare per amore di semicitazione. Comun denominatore la dolcezza del prodotto che viene però paragonata “ai colori della Vucciria” (per la capitale dell’Isola) o alla “mattina del 5 febbraio” (per la città ai piedi dell’Etna). Apriti cielo! Via ai cori di sdegno, all’identità camuffata ad uso slogan o addirittura tradita, alla critica impietosa ad un passato che non è più presente o addirittura ad un sentimento religioso che non si può certo paragonare al condimento per un piatto di spaghetti (rigorosamente numero 5, ca va sans dire).

Al di là dello stantio sbuffare con retropensiero polemico-politico (l’immondizia, il degrado dei centri storici, la pubblica incuria sia per Palermo che per Catania) ci si pongono quesiti da non dormirci la notte. Si sono accertati, i pubblicitari della Barilla, che alla Vucciria ci sia ancora un rosso così dolce come quello della salsa che producono? E hanno mai testato di persona la dolcezza dell’alba agatina (il 5 febbraio è il giorno in cui culminano i festeggiamenti per la patrona) sulla quale sfoderano tutta questa sapienza? Sanno che le “balate” del popolare mercato di Palermo – sempre meno mercato ma isola dello street food – sono per lo più asciutte contraddicendo una rappresentazione classica che le voleva sempre bagnate (dall’acqua che i commercianti gettavano sui pesci o sulle verdure per renderne più vividi per l’appunto i colori oltre che la presunta freschezza)? Cosa possono intuire di quel sentire misto sacro-profano che accompagna i catanesi nei giorni della loro Santa ed in specie nell’ultimo, di quella dolcezza sudata e sfinita, di quel rosso passione mistica che anima ancora come per miracolo quell’epilogo di festa?

Ci sono occasioni in cui i siciliani inalberano un orgoglio degno di miglior causa. D’altronde il luogo comune è sempre stato – nella sua accezione tout court, di semplice citazione iconografica o verbale, o nella sua mutazione parodistica – pane del miglior impasto per i fabbricatori di réclame, materia prima da inzuppare (proprio come si fa con il pane nella salsa di pomodoro bollente che ha appena finito di borbottare nel tegame) nella loro fantasia. Che poi il risultato sia stato più o meno felice, questo attiene alla bravura del pubblicitario, all’efficacia del messaggio.

Avessimo sempre questa così autorevole consapevolezza di noi, coltivassimo sempre questa vis polemica, non dovremmo aver più fiato, allora, per recriminare contro Dolce & Gabbana – per fare un esempio che oggi suona, vedi caso, un po’ crudele dopo il recente “affaire” cinese – visto che da almeno un ventennio i due stilisti (e Dolce è siculo di Polizzi) offrono – tra pubblicità e sfilate – una visione arcaico-folkloristica della Sicilia, con scialli per le donne e coppole per i maschi e fichidindia e colonne di templi greci in mezzo ai quali infilare abiti da sera, borsette, profumi e quant’altro. Non dovremmo più rivedere (anzi, dovremmo bandire dai nostri archivi) tutti gli sketches storici dei grandi comici che hanno irriso i difetti antropologico-lessicali del prototipo isolano. Certo si potrebbe applaudire, al contrario, a tentativi defolclorizzanti come quelli esperiti da altri artisti o creativi, come ha fatto Emma Dante mettendo in scena non solo i suoi estemporanei “mafiosi” di “Cani di bancata” ma confrontandosi con quel capolavoro del verismo musicale che è “Cavalleria rusticana” che dal Comunale di Bologna sta adesso girando per altri teatri lirici, e dove la tragica domenica di Pasqua di Turiddu e Alfio è improntata a una tale scarnificazione, a un tale rifiuto dell’iconografia tradizionale che collasserebbero fragorosamente ruote e paracarri del vecchio, ipercolorato carretto che una volta si portava in scena con cavallo vivente.

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