In alcuni paesi dell’entroterra agrigentino, nel giorno dell’Epifania, va in scena una testimonianza della Sicilia arcaica che resiste inviolata
di Beniamino Biondi

Se non fossimo in Sicilia, il termine pastorale ci farebbe immediatamente pensare al paesaggio trasfigurato e a certe atmosfere idilliache e mitiche della letteratura inglese. Villaggi brumosi di campagna, processioni di animali al pascolo, forme romantiche di arcadia, e in alcuni casi la rozza brutalità di una vita difficile, come nel (bellissimo) romanzo “Il viaggio più lungo” di Edward Forster. In Sicilia, però, nessuno si prende la briga di scomodare la compassata Inghilterra, e la pastorale richiama all’epoca ellenistica e al poeta siracusano Teocrito, che potrebbe aver tratto ispirazione dalle leggende e dalle tradizioni della popolazione locale. I poemi sono ambientati in un meraviglioso paesaggio rurale, il locus amoenus per eccellenza, e i pastori trascorrono il tempo in dolce indolenza, spesso componendo musica e versi.

Calata e circoscritta nel contesto del Natale, la pastorale è una delle più arcaiche e particolari forme di rappresentazione popolare siciliana – di piazza e di strada – della Natività, celebrata nell’Isola da tempo immemore, che va in scena per l’Epifania in particolare. Le cosiddette “Pastorali di Nardu”, che nell’Agrigentino hanno luogo il 6 gennaio, nei comuni dell’entroterra agricolo (Joppolo Giancaxio, Raffadali, Sant’Angelo Muxaro, Santa Elisabetta), costituiscono più d’altre una vera e propria testimonianza di Sicilia arcaica che resiste inviolata e preziosa. A sottolineare l’importanza della pastorale per il territorio – afferma il sindaco di Santa Elisabetta, Domenico Gueli – “stiamo lavorando da tempo per l’iscrizione al Reis, il Registro delle eredità immateriali della Sicilia”.

U Nardu è una farsa popolare pagana, di carattere pastorale e contadino, imperniata sull’arte della mimica – come in un’azione scenica allucinata e panica, dai tratti anche simbolicamente violenti – la vita bucolica e il lavoro nei campi delle antiche plebi siciliane, in un’idea sacrificale della comunità, che solo successivamente si innesta dentro la cornice del dramma sacro e religioso. Protagonista delle azioni, che scandiscono la rappresentazione pagana, è Nardu, il servo pigro e indolente che incarna lu sfacinnatu (“il fannullone”).
Nella complessa gerarchia pastorale, Nardu è una figura marginale che si è elevata a maschera dalle fortissime caratterizzazioni che si avvale di un codice linguistico prelogico e pregrammaticale, cioè improntato a una ritualità gestuale e mimica di assoluta non prevedibilità, come in uno stato alterato di coscienza. Nel potere del disordine, cioè del rovesciamento dei rapporti sociali, Nardu metaforizza l’idea stessa di trasgressione, e in questo è forse il suo aspetto più interessante, quale strumento di riscatto degli ultimi in una forma di rozzo ma incisivo millenarismo pagano.

Il suo stesso corpo lo aliena e lo qualifica: la finta gobba che porta sulle spalle, il volto impiastricciato di bianco, il vestito lacero composto da una sacca di juta tenuta da una cintura di ddisa (un’erba molto forte che cresce copiosa nei prati incolti e che, comunemente, si usa per legare la vite al portatore o per legare i fasci di grano o i covoni dopo il raccolto), il caratteristico copricapo ricavato da una calza terminante con un peso, e infine il tipico bastone da pecoraio. Nardu si trascina – tra pause estenuate e ricreazioni neghittose, inseguimenti spasmodici e balzi improvvisi – continuamente rimbrottato, umiliato e (sovente) bastonato per la sua indolenza e inettitudine dai pastori, protagonisti della transumanza scenica che si svolge per le vie del paese. In un clima caotico e disubbidiente, Nardu inscena repentini scatti panici, allusioni erotiche e mosse scurrili, sputi di pasta e ricotta sulla folla degli astanti, girando su se stesso e piegando goffamente da ogni lato.

Di fianco a lui si muovono i cardunara, che portano un bastone con un fascio di cardi selvatici, e altri pastori che gli danno da mangiare, rozzamente, imboccandogli con le mani il cibo che Nardu mastica e sputa irriverente sulla folla posta ai lati della strada e del corteo, intanto che le varie stazioni si susseguono vorticando intorno alla maschera ghignante del servo ingobbito, nei diversi momenti che mettono in scena la vita tipica di una masseria: la transumanza delle greggi, la preparazione della ricotta, la raccolta dell’erba e della legna, il trasporto dell’acqua, la caccia al coniglio, la cattura del ladro di arance, l’uccisione del lupo che minaccia l’agnello.
Compromessi e rovesciati gli immutabili canoni sociali, quale figura simbolica – dai caratteri precipuamente ctonii – Nardu reinventa e sublima una sorta di caos primigenio, un arcaico gesto rituale che propizia la fertilità della natura in un contesto agro-pastorale, che, relato ai significati pagani del solstizio d’inverno, sembra condurre alle origini di un tempo remoto, a forme preletterarie greche quali il mimo di Sofrone e i prodromi della commedia nata in Sicilia con Epicarmo.

Esaurito questo momento, che è il più interessante, la pastorale acquisisce un sembiante religioso consacrato e ortodosso, cioè a dire mimetico, con l’arrivo alla grotta, che ospita la Sacra Famiglia, dei Re Magi, dove giunge, inconsapevole e prima degli altri, Nardu che pone fine, nello stupore incantato dell’adorazione del Bambino Gesù, a questo carnevale mascherato, comico, osceno, rituale, ossessivo, inafferrabile, ostacolato, snervante e mitico. Insomma, un momento esemplare e tra i più sconcertanti della ricca tradizione pastorale siciliana, tra le feste più bizzarre cui sia possibile ancora oggi assistere, pressoché intatta nelle carni di una storia che muore.