Le zolfare furono da un lato risorsa, ma dall’altro causa di sofferenze e lutti, come quella di Gibellini, tra Racalmuto e Montedoro. Luoghi che oggi potrebbero diventare mete turistiche e culturali
di Beniamino Biondi

Il racconto delle miniere nella Sicilia occidentale, soprattutto nella parte di territorio che copre le province di Agrigento e di Caltanissetta, è la pagina più drammatica della storia sociale ed economica di tutta l’Isola, segnata per quasi due secoli dall’attività estrattiva dello zolfo. Le miniere hanno condizionato il costume, emendato i comportamenti, corretto le abitudini, intessuto la vita quotidiana e le tensioni soffocate della lotta, apparendo come una cornice tragica nella grande letteratura siciliana.

Lo zolfo respira, acre e pungente, nelle pagine di Pirandello, ed esala fino alla tragedia nelle dolorose vicende familiari di Sciascia. Non a caso i nomi dei due scrittori, radiografi della più profonda psicologia isolana, esistono un po’ perché sono esistite le miniere. Le zolfare furono fonte di sostentamento per le popolazioni, ma, soprattutto, causa di sofferenze, tragedie e lutti. L’estrazione dello zolfo dalle viscere della terra fu possibile solo grazie al lavoro massacrante e disumano degli uomini e, ancor di più, dei cosiddetti “carusi”, che partivano all’alba e tornavano con il buio, restando sepolti vivi per tutto il giorno. Lo sfruttamento dei lavoratori e l’assenza di garanzie agli anziani furono fenomeni che produssero grave disagio sociale e giustificati fermenti sindacali. Eppure, la storia dello zolfo in Sicilia non riuscì a liberarsi dalle condizioni disumane con cui si lavorava in miniera.

Di quel patrimonio minerario – e di quella storia – oggi rimangono strutture obsolete, lacerti tristemente fascinosi dell’archeologia industriale, resistenti in mezzo alle campagne dell’entroterra quasi con un senso di vergogna, e, certamente, di solitudine immensa. Le storie delle miniere si somigliano tutte, nella misura in cui ognuna a suo modo costituisce un racconto a sé, attingendo alla farsa o declinando in tragedia. È farsa quella del romanzo “La miniera occupata” di Angelo Petix, che Mondadori pubblica nel 1952, che descrive il mondo della miniera Gibellini e dei minatori del vicino paese di Montedoro dopo la Seconda guerra mondiale, raccontando di un minatore – Salvatore Frischetta – che era oggetto dello scherno dei suoi compagni per le “corna” notturne che gli faceva la moglie Teresa.

È tragedia quella della cava di salgemma di Racalmuto, il paese di Sciascia, con la morte dell’operaio Angelo Brunetto, del figlio del concessionario della miniera, l’insegnante Michelangelo Cardillo, e del minatore Filippo Villa, asfissiati in un incendio sviluppatosi all’interno della cava che con un denso fumo di vapori ha tolto il respiro ai poveri cristi ridotti, per la cronaca, a un secco elenco di nomi: ecco come si muore per oltre dieci ore al giorno di lavoro e un misero salario di mille lire. Racalmuto è stato uno dei primi centri della Sicilia per l’industria estrattiva dello zolfo, del salgemma e dei sali potassici.

Una delle più grandi miniere, ora dismessa, è stata quella di Gibellini, nata dopo la scoperta di un grande giacimento di zolfo nel 1852. Fu chiusa nel 1975, con l’abbandono definitivo di tutta l’attività mineraria e a causa della svalutazione dello zolfo per la concorrenza americana (lo zolfo americano, infatti, veniva estratto con la sonda Frasch molto più rapidamente e a costi bassi). Il 1868, anno di apertura formale della miniera, e il 1975, anno della chiusura: più di un secolo di condizioni schiavistiche del lavoro e di quasi totale assenza di diritti sindacali e di garanzie sociali. Schiavi e padroni, antiche definizioni che però rendono il senso della più brutale differenza di classe. La miniera di Gibellini è sita nel territorio di Racalmuto, ma di fatto è più vicina al paese di Montedoro.

Oggi risulta evidente lo stato di abbandono e il degrado dei fabbricati, a seguito della dismissione della miniera, dislocati in vari punti dell’aria e adibiti a diversi usi: direzione, foresterie, depositi esplosivi, spogliatoi, lampisteria. Sul posto è visibile il pozzo principale tappato e colpisce l’ammasso di ferraglia di valore pressoché nullo, ossia quel che resta del “Forno Roma”, progettato, negli anni Cinquanta, da Francesco Roma, ingegnere docente dell’Università di Bologna e la cui realizzazione venne appaltata alla Ansaldo di Genova. La finalità del progetto era quella di superare i vecchi sistemi di estrazione dello zolfo, basati fino ad allora sulla fusione minerale con i forni Gill o sistemi analoghi. Ultimate le prove di funzionamento, tra la fine del ‘57 e l’inizio del ’58, l’impianto è rimasto fermo, per la difficoltà di messa a punto di alcune parti e per il costo di gestione particolarmente gravoso.

Questo luogo, come molti altri, conserva intatti il suo fascino e la sua bellezza, anche se prevale il senso della rovina. In Sicilia, alcune Soprintendenze si sono spese per salvaguardare una parte significativa di tutto questo patrimonio minerario, che ha così fortemente marcato la nostra storia. Per garantirne la conservazione nel tempo, alcuni di questi beni sono stati sottoposti a tutela, ma a ciò non sempre sono seguite iniziative volte alla loro valorizzazione. E invece le aree minerarie come Gibellini andrebbero recuperate e riqualificate, e soprattutto restituite alla pubblica fruizione dentro percorsi specifici.

Prima che imbellettati ad uso dei turisti, questi luoghi dovrebbero diventare mete di coscienza civile per tutti i siciliani, nella stessa sobrietà e nel silenzio con cui in Polonia si entra nei campi di concentramento. La forma più alta di turismo culturale per i siciliani dovrebbe ripartire proprio dalle miniere abbandonate, e cittadini e amministrazioni dovrebbero richiederlo a gran forza, anche per una forma di riscatto sociale che riparta proprio dalla pagina più buia della nostra storia recente: la memoria dei minatori caduti, l’innocenza perduta dei “carusi” e la dignità negata del lavoro. Ecco, ripartire dalla dignità della Sicilia.