Il sorriso dell’ignoto orizzonte

Quella linea è un sogno e nello stesso tempo una speranza. E noi ci auspichiamo che l’isola della felicità stia da qualche parte che pure non vediamo. E poi ci sono i delfini a guidarci

Giovanni Chiappisi

Sono sempre stato attratto dall’orizzonte e forse è per questo che preferisco la navigazione d’altura a quella costiera. L’orizzonte è un traguardo e nello stesso tempo un punto di partenza. Non riusciremo mai a raggiungere l’orizzonte, perché quando noi pensiamo di avere raggiunto quel punto, lui si è spostato. L’orizzonte non è un qualcosa di geografico, ma un modo di impostare la nostra vita. E’ voglia di scoperta, è voglia di ignoto, è voglia di non fermarsi.

Andare verso l’orizzonte è un po’ come andare alla ricerca dell’isola che non c’è. Vediamo gli occhi di una donna, vediamo un suo sorriso e ci viene voglia di scoprire come è dentro, cosa pensa, come vive, come piange, come ama, come si dà. E più andiamo avanti in questo viaggio che ci coinvolge nel corpo e nello spirito, e più forte è la voglia di saperne di più. Fino a quando siamo noi quella ricerca, in quell’orizzonte che all’inizio si è mostrato come un sorriso o come uno sguardo.

L’orizzonte è un sogno e nello stesso tempo una speranza. Siamo degli incontentabili. Il nostro mondo, per quanto possa essere grande e dalle mille facce, non ci basta. E allora cerchiamo quel qualcosa che ci manca, quel qualcosa che nella nostra mente e nel nostro cuore ci dovrebbe far diventare completi, perfetti, forti e invincibili. E allora speriamo che l’isola della felicità stia da qualche parte che non vediamo, dopo l’orizzonte. E partiamo, carichi di sogni e di speranze. Nella nostra nave abbiamo caricato di tutto: dalle cose essenziali ai doni da offrire agli abitanti di quell’isola che non c’è e che forse non c’è davvero.

La barca va e noi già viviamo nella nostra mente e nel nostro cuore quel che succederà nel momento in cui vedremo quell’isola, butteremo l’ancora e con quattro bracciate raggiungeremo la spiaggia. Arriva qualche colpo di vento, ogni tanto un’onda più alta e ripida delle altre muore nel pozzetto: sono segnali che metterebbero in allerta qualunque buon marinaio, ma non quelli che inseguono sogni e isole che non ci sono e che sfidano ignoto e orizzonte.

Andiamo verso quell’orizzonte che ostinatamente continua a nasconderci il nostro Eden. Una barriera corallina, una secca, un’Isola Ferdinandea che si erge all’improvviso in un mare dove l’orizzonte corre attorno a se stesso per 360 gradi e che se volesse potrebbe distruggere qualunque scafo. Ma i sogni di chi insegue la formula per essere completi, perfetti, forti e invincibili sono sogni che non possono infrangersi. Sono sogni forti, quelli.

Allora bando ai timori e via, verso la conquista dell’orizzonte. E qui si materializza il mistero della fusione: ad inseguire questo orizzonte sono corpo e spirito, dove corpo e spirito diventano un’unica identità. Noi siamo stati abituati a distinguere il dolore: quello fisico, esterno, e quello che nasce, cresce e muore dentro di noi: la perdita di un caro, la metamorfosi di una voglia che corre a marcia indietro, diventa un desiderio, poi un’idea e poi il nulla. Nelle navigazioni non ci sono dolori, ma solo sofferenze.

Quelle sofferenze che i marinai che vanno davvero per mare conoscono bene: stare al freddo per contrastare il maltempo, il dormire umidi, per poco tempo e con quel sesto senso sempre vigile e pronto a buttarci giù dalla cuccetta, gli sforzi per ridurre una vela quando il vento è forte. Queste sono sofferenze, non dolori. Le sofferenze dopo un po’ passano. E se non passano, ci si abitua a convivere con loro. I dolori, no: quelli ti massacrano.

La barca va e i delfini ci vengono incontro, si appoggiano alla prua e ci fanno cambiare rotta. E’ la rotta sbagliata, sembrano voler dire. Ma come fanno i delfini a sapere che la nostra rotta è sbagliata? Impossibile, ci diciamo. E continuiamo a navigare verso l’orizzonte che, beffardo, continua a spostarsi fino a diventare un altro orizzonte e poi un altro ancora.

Quella linea è un sogno e nello stesso tempo una speranza. E noi ci auspichiamo che l’isola della felicità stia da qualche parte che pure non vediamo. E poi ci sono i delfini a guidarci

Giovanni Chiappisi

Sono sempre stato attratto dall’orizzonte e forse è per questo che preferisco la navigazione d’altura a quella costiera. L’orizzonte è un traguardo e nello stesso tempo un punto di partenza. Non riusciremo mai a raggiungere l’orizzonte, perché quando noi pensiamo di avere raggiunto quel punto, lui si è spostato. L’orizzonte non è un qualcosa di geografico, ma un modo di impostare la nostra vita. E’ voglia di scoperta, è voglia di ignoto, è voglia di non fermarsi.

Andare verso l’orizzonte è un po’ come andare alla ricerca dell’isola che non c’è. Vediamo gli occhi di una donna, vediamo un suo sorriso e ci viene voglia di scoprire come è dentro, cosa pensa, come vive, come piange, come ama, come si dà. E più andiamo avanti in questo viaggio che ci coinvolge nel corpo e nello spirito, e più forte è la voglia di saperne di più. Fino a quando siamo noi quella ricerca, in quell’orizzonte che all’inizio si è mostrato come un sorriso o come uno sguardo.

L’orizzonte è un sogno e nello stesso tempo una speranza. Siamo degli incontentabili. Il nostro mondo, per quanto possa essere grande e dalle mille facce, non ci basta. E allora cerchiamo quel qualcosa che ci manca, quel qualcosa che nella nostra mente e nel nostro cuore ci dovrebbe far diventare completi, perfetti, forti e invincibili. E allora speriamo che l’isola della felicità stia da qualche parte che non vediamo, dopo l’orizzonte. E partiamo, carichi di sogni e di speranze. Nella nostra nave abbiamo caricato di tutto: dalle cose essenziali ai doni da offrire agli abitanti di quell’isola che non c’è e che forse non c’è davvero.

La barca va e noi già viviamo nella nostra mente e nel nostro cuore quel che succederà nel momento in cui vedremo quell’isola, butteremo l’ancora e con quattro bracciate raggiungeremo la spiaggia. Arriva qualche colpo di vento, ogni tanto un’onda più alta e ripida delle altre muore nel pozzetto: sono segnali che metterebbero in allerta qualunque buon marinaio, ma non quelli che inseguono sogni e isole che non ci sono e che sfidano ignoto e orizzonte.

Andiamo verso quell’orizzonte che ostinatamente continua a nasconderci il nostro Eden. Una barriera corallina, una secca, un’Isola Ferdinandea che si erge all’improvviso in un mare dove l’orizzonte corre attorno a se stesso per 360 gradi e che se volesse potrebbe distruggere qualunque scafo. Ma i sogni di chi insegue la formula per essere completi, perfetti, forti e invincibili sono sogni che non possono infrangersi. Sono sogni forti, quelli.

Allora bando ai timori e via, verso la conquista dell’orizzonte. E qui si materializza il mistero della fusione: ad inseguire questo orizzonte sono corpo e spirito, dove corpo e spirito diventano un’unica identità. Noi siamo stati abituati a distinguere il dolore: quello fisico, esterno, e quello che nasce, cresce e muore dentro di noi: la perdita di un caro, la metamorfosi di una voglia che corre a marcia indietro, diventa un desiderio, poi un’idea e poi il nulla. Nelle navigazioni non ci sono dolori, ma solo sofferenze.

Quelle sofferenze che i marinai che vanno davvero per mare conoscono bene: stare al freddo per contrastare il maltempo, il dormire umidi, per poco tempo e con quel sesto senso sempre vigile e pronto a buttarci giù dalla cuccetta, gli sforzi per ridurre una vela quando il vento è forte. Queste sono sofferenze, non dolori. Le sofferenze dopo un po’ passano. E se non passano, ci si abitua a convivere con loro. I dolori, no: quelli ti massacrano.

La barca va e i delfini ci vengono incontro, si appoggiano alla prua e ci fanno cambiare rotta. E’ la rotta sbagliata, sembrano voler dire. Ma come fanno i delfini a sapere che la nostra rotta è sbagliata? Impossibile, ci diciamo. E continuiamo a navigare verso l’orizzonte che, beffardo, continua a spostarsi fino a diventare un altro orizzonte e poi un altro ancora.

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