Dopo anni passati a vedere e a recensire spettacoli (e qualche volta anche a esserne autore), adesso preferisce soprattutto frequentare il suo divano. Dal quale osserva la Sicilia vista dalla tv. Luoghi comuni, pregiudizi, innamoramenti esotici.
La rivolta scoppiò appena fu toccata la Storia. Esegeti del racconto televisivo ma all’occorrenza anche annalisti pignoli, i siciliani che una settimana prima avevano innalzato lodi al commissario Montalbano della contemporanea Vigata si trovarono a tuonare (come fosse un impegno imprescindibile, un dovere etico-morale) contro il sommo autore che aveva sfiorato con la propria fantasia il loro passato trasportando l’immaginario paese a quasi 150 anni prima e intrecciando una vicenda in verità bellissima, anche se non originale, su un groviglio ben concertato di mafia e delegati di polizia corrotti, occhiuti notabili di paese e proprietari terrieri corruttori, un giovane e adamantino funzionario della finanza capitato in quel covo di vipere prima fatto vittima e poi giustiziere, col grimaldello dell’astuzia, in nome della verità. “La mossa del cavallo”, una roba a metà tra Pirandello e Sciascia, tra la signora Frola e l’abate Vella, tra la pazzia e l’impostura. Apriti cielo! Questa non era la Sicilia di quei tempi! E giù a dottrinare, citare, puntualizzare con l’ausilio di note a piè pagina, cavillare. E menomale che in una nota introduttiva delle sue – una di quelle in cui appare come un divertito ed innocuo Tiresia – Camilleri li aveva avvertiti: non vi allarmate, ci ho messo anche di mio, ho confuso i registri, spinto magari un po’ sull’acceleratore: che da un uomo di teatro e televisione, ancor prima che di letteratura, ce lo si può certo aspettare. Ma loro no, il senso dei siciliani per la Storia è granitico, il grottesco non è modello applicabile a un passato ormai remoto ma sempre lì, aleggiante nella mitologia, immobile sul piedistallo, irradiante da un altare. Non si fa farsa, della Storia. La si scredita, per dirla sommessamente, la si rende poco credibile. Poco credibili l’ispettore Bovara e l’avvocato Fasulo, poco credibili veleno e contravveleno, torti e ragioni. Come se le storie, anche quelle piccole, con la “s” minuscola, che si avvinghiano a quella ufficiale, con la “s” maiuscola, e in parte la fanno, avessero necessariamente bisogno, oltre che di un’autorevolezza accademica, di una credibilità quotidiana e pedissequa, mentre non avessero necessità o urgenza di questa certificazione le storie contemporanee di Montalbano, come se l’appuntato Catarella si potesse davvero trovare, oggi, in un qualsiasi commissariato, come se Ibla fosse davvero Porto Empedocle, come se la domestica terrazza sul mare del poliziotto più famoso d’Italia, a Punta Secca, nel Ragusano, fosse davvero Marinella. Che a Porto Empedocle, però, guarda caso esiste davvero ed è ugualmente bellissima.
Dopo anni passati a vedere e a recensire spettacoli (e qualche volta anche a esserne autore), adesso preferisce soprattutto frequentare il suo divano. Dal quale osserva la Sicilia vista dalla tv. Luoghi comuni, pregiudizi, innamoramenti esotici.

La rivolta scoppiò appena fu toccata la Storia. Esegeti del racconto televisivo ma all’occorrenza anche annalisti pignoli, i siciliani che una settimana prima avevano innalzato lodi al commissario Montalbano della contemporanea Vigata si trovarono a tuonare (come fosse un impegno imprescindibile, un dovere etico-morale) contro il sommo autore che aveva sfiorato con la propria fantasia il loro passato trasportando l’immaginario paese a quasi 150 anni prima e intrecciando una vicenda in verità bellissima, anche se non originale, su un groviglio ben concertato di mafia e delegati di polizia corrotti, occhiuti notabili di paese e proprietari terrieri corruttori, un giovane e adamantino funzionario della finanza capitato in quel covo di vipere prima fatto vittima e poi giustiziere, col grimaldello dell’astuzia, in nome della verità. “La mossa del cavallo”, una roba a metà tra Pirandello e Sciascia, tra la signora Frola e l’abate Vella, tra la pazzia e l’impostura. Apriti cielo! Questa non era la Sicilia di quei tempi! E giù a dottrinare, citare, puntualizzare con l’ausilio di note a piè pagina, cavillare. E menomale che in una nota introduttiva delle sue – una di quelle in cui appare come un divertito ed innocuo Tiresia – Camilleri li aveva avvertiti: non vi allarmate, ci ho messo anche di mio, ho confuso i registri, spinto magari un po’ sull’acceleratore: che da un uomo di teatro e televisione, ancor prima che di letteratura, ce lo si può certo aspettare. Ma loro no, il senso dei siciliani per la Storia è granitico, il grottesco non è modello applicabile a un passato ormai remoto ma sempre lì, aleggiante nella mitologia, immobile sul piedistallo, irradiante da un altare. Non si fa farsa, della Storia. La si scredita, per dirla sommessamente, la si rende poco credibile. Poco credibili l’ispettore Bovara e l’avvocato Fasulo, poco credibili veleno e contravveleno, torti e ragioni. Come se le storie, anche quelle piccole, con la “s” minuscola, che si avvinghiano a quella ufficiale, con la “s” maiuscola, e in parte la fanno, avessero necessariamente bisogno, oltre che di un’autorevolezza accademica, di una credibilità quotidiana e pedissequa, mentre non avessero necessità o urgenza di questa certificazione le storie contemporanee di Montalbano, come se l’appuntato Catarella si potesse davvero trovare, oggi, in un qualsiasi commissariato, come se Ibla fosse davvero Porto Empedocle, come se la domestica terrazza sul mare del poliziotto più famoso d’Italia, a Punta Secca, nel Ragusano, fosse davvero Marinella. Che a Porto Empedocle, però, guarda caso esiste davvero ed è ugualmente bellissima.