È quello di Sant’Antonino, qui si macinava il grano per produrre il pane destinato alle caserme di tutta la Sicilia: ora questo avamposto di archeologia industriale sarà visitabile nel corso del Festival, con due eventi speciali a cura di Maurizio Carta
di Federica Certa
Francesco De Gregori cantava “La storia siamo noi. Siamo noi questo piatto di grano”. E c’è un luogo a Palermo – uno dei 130 spazi della città inseriti nel circuito del festival Le Vie dei Tesori 2018 – dove la memoria ha la forma e la fragranza del pane, la consistenza prosaica, terrena, di quel miracolo di lievito, acqua e farina che nutre il corpo e lo spirito, che può essere il pretesto di una rivoluzione, linguaggio universale, simbolo di tutti i diritti presenti e futuri. Il pane e la sua creazione, un processo di pazienza e fatica, che a Palermo, agli inizi del Novecento, cominciava ogni giorno nel Mulino di Sant’Antonino, nell’ex convento seicentesco di Sant’Antonio da Padova degli Osservanti riformati di San Francesco, all’imbocco di corso Tukory, a pochi metri dalla stazione centrale. Uno spazio dal fascino intatto, che è stato luogo di culto e di devozione – con l’omonima chiesa attigua – e centro di macinazione del grano per produrre il pane destinato alle caserme di tutta la Sicilia.
Che è stato anche, e continua ad essere, un cantiere, oggetto di un ambizioso progetto di restauro – promosso dall’Università di Palermo, proprietaria della struttura dal 2004, su progetto dell’Ufficio tecnico – che ha portato al risanamento di tutta l’ala sud-est del complesso, trasformata in aule didattiche, laboratori linguistici per l’Ateneo e per la scuola di italiano per stranieri e in una biblioteca. Il gigantesco mulino in legno, invece, è stato recuperato nel pieno rispetto del manufatto originale, uno dei pochi in Europa così ben conservati, e rivive oggi con la sua aura di operosa, rustica bellezza, insieme ai macchinari che servivano per trasformare i chicchi in farina.
“Abbiamo restituito alla città un luogo di grande suggestione – commenta Maurizio Carta, presidente della Scuola politecnica e responsabile di PalermoLab, collettivo di cinque laboratori di architettura di Unipa – che a breve conquisterà ulteriori nuovi spazi: la parte sottostante, dove un tempo si trovavano i forni, e gli ambienti attorno al cortile, parte dell’ex convento, che diventeranno un polo museale per la conservazione delle collezioni etnico-antropologiche e umanistiche dell’Università, sala-conferenze e aule per le lezioni”.
L’antico mulino, protagonista di uno dei percorsi più curiosi del festival culturale d’autunno, verrà mostrato e raccontato attraverso le vicende, spesso sanguinose – come l’assedio della folla affamata e la strage del pane, nell’ottobre del 1944, che costò la vita a 24 incolpevoli manifestanti stremati dalla guerra e dalla supponenza dei governanti – che hanno avuto come epicentro un luogo solo apparentemente banale e ordinario, in realtà teatro minimo, ma a suo modo cruciale, della cronaca spicciola della quotidianità novecentesca.
Ad accompagnare il pubblico, i Ciceroni delle Vie dei Tesori, mentre il professore Carta sarà presente a due eventi speciali organizzati all’interno del complesso. “Parte fondamentale della visita al Mulino – spiega ancora il docente – è la mostra realizzata nell’ambito della dodicesima edizione della biennale nomade europea d’arte contemporanea Manifesta, che ha visto la città protagonista assoluta. Per tutto lo scorso anno accademico gli studenti di PalermoLab hanno lavorato con i colleghi della scuola di Architettura e del Royal college di Londra e con gli studenti dell’University of technology di Delft, per un totale di 300 giovani impegnati nel progetto Hyper City – Augmented Palermo”.
Decine e decine di disegni, plastici, installazioni che rappresentano i possibili scenari, tutti realizzabili con risorse limitate ed eco-sostenibili, per “amplificare”, allargare, ripensare, spingere ‘oltre’ le aree urbanistiche della città. Con piani di riqualificazione del Waterfront e della circonvallazione, del centro storico e della VII circoscrizione, quella del quartiere San Filippo Neri e dintorni. Nella prospettiva di una città che dialoga con la natura e il commercio, con gli spazi per la cultura e l’arte. Gli studenti inglesi e olandesi hanno lavorato sull’idea di nuove anime per Palermo, una come territorio “sospeso”, dove è possibile ripensare persino Pizzo Sella, un’altra come città-giardino, e la terza, infine, come centro di condivisione della vita politica e istituzionale della comunità.
Ma prima della trasformazione in caserma l’edificio di piazza Sant’Antonino fu per tre secoli il convento dei francescani più vicino alla città, rispetto al più remoto complesso di Santa Maria di Gesù. Costruito nel 1630 da Mariano Smiriglio, nome molto attivo a Palermo per le committenze religiose dell’epoca, fu definito dallo storico dell’arte Gaspare Palermo come “un insieme di magnifiche fabbriche”. E in effetti il grande cortile quadrato, con un porticato scandito da colonne di billiemi, e i grandi saloni con volte a botta e a crociera, conferivano al complesso un’atmosfera di solenne imponenza, a dimostrazione dell’intenzione originaria di costruire il convento come fondale prospettico del lungo viale alberato aperto nel 1635, lo stradone di Alcalà, oggi via Lincoln, che risaliva dal mare.
Dopo il 1866, con la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni, il complesso divenne sede militare. Alla fine di questo secolo risalgono l’abbandono e lo smembramento delle sculture, quando i piani urbanistici della città cambiarono radicalmente con la costruzione della Stazione centrale e della grande piazza antistante. Il convento rischiò la demolizione, per fare spazio a nuove costruzioni attorno la stazione, ma alla fine rimase al suo posto, insieme con la chiesa.
Nei primi anni del Novecento, quindi, la trasformazione in “caserma della sussistenza” e l’installazione di un mulino. L’edificio fu modificato per essere adattato al nuovo uso: il loggiato chiuso con muratura per ricavarne magazzini, le grandi sale percorse da binari su cui correvano i carrelli che trasportavano da una parte all’altra prima il grano e poi il pane, le pareti innalzate e le scale spostate, le strutture di copertura in legno sostituite con solai in cemento armato. Infine, la rinascita, fino a diventare uno degli avamposti di archeologia industriale più significativi della città.
È quello di Sant’Antonino, qui si macinava il grano per produrre il pane destinato alle caserme di tutta la Sicilia: ora questo avamposto di archeologia industriale sarà visitabile nel corso del Festival, con due eventi speciali a cura di Maurizio Carta
di Federica Certa
Francesco De Gregori cantava “La storia siamo noi. Siamo noi questo piatto di grano”. E c’è un luogo a Palermo – uno dei 130 spazi della città inseriti nel circuito del festival Le Vie dei Tesori 2018 – dove la memoria ha la forma e la fragranza del pane, la consistenza prosaica, terrena, di quel miracolo di lievito, acqua e farina che nutre il corpo e lo spirito, che può essere il pretesto di una rivoluzione, linguaggio universale, simbolo di tutti i diritti presenti e futuri. Il pane e la sua creazione, un processo di pazienza e fatica, che a Palermo, agli inizi del Novecento, cominciava ogni giorno nel Mulino di Sant’Antonino, nell’ex convento seicentesco di Sant’Antonio da Padova degli Osservanti riformati di San Francesco, all’imbocco di corso Tukory, a pochi metri dalla stazione centrale. Uno spazio dal fascino intatto, che è stato luogo di culto e di devozione – con l’omonima chiesa attigua – e centro di macinazione del grano per produrre il pane destinato alle caserme di tutta la Sicilia.
Che è stato anche, e continua ad essere, un cantiere, oggetto di un ambizioso progetto di restauro – promosso dall’Università di Palermo, proprietaria della struttura dal 2004, su progetto dell’Ufficio tecnico – che ha portato al risanamento di tutta l’ala sud-est del complesso, trasformata in aule didattiche, laboratori linguistici per l’Ateneo e per la scuola di italiano per stranieri e in una biblioteca. Il gigantesco mulino in legno, invece, è stato recuperato nel pieno rispetto del manufatto originale, uno dei pochi in Europa così ben conservati, e rivive oggi con la sua aura di operosa, rustica bellezza, insieme ai macchinari che servivano per trasformare i chicchi in farina.
“Abbiamo restituito alla città un luogo di grande suggestione – commenta Maurizio Carta, presidente della Scuola politecnica e responsabile di PalermoLab, collettivo di cinque laboratori di architettura di Unipa – che a breve conquisterà ulteriori nuovi spazi: la parte sottostante, dove un tempo si trovavano i forni, e gli ambienti attorno al cortile, parte dell’ex convento, che diventeranno un polo museale per la conservazione delle collezioni etnico-antropologiche e umanistiche dell’Università, sala-conferenze e aule per le lezioni”.
L’antico mulino, protagonista di uno dei percorsi più curiosi del festival culturale d’autunno, verrà mostrato e raccontato attraverso le vicende, spesso sanguinose – come l’assedio della folla affamata e la strage del pane, nell’ottobre del 1944, che costò la vita a 24 incolpevoli manifestanti stremati dalla guerra e dalla supponenza dei governanti – che hanno avuto come epicentro un luogo solo apparentemente banale e ordinario, in realtà teatro minimo, ma a suo modo cruciale, della cronaca spicciola della quotidianità novecentesca.
Ad accompagnare il pubblico, i Ciceroni delle Vie dei Tesori, mentre il professore Carta sarà presente a due eventi speciali organizzati all’interno del complesso. “Parte fondamentale della visita al Mulino – spiega ancora il docente – è la mostra realizzata nell’ambito della dodicesima edizione della biennale nomade europea d’arte contemporanea Manifesta, che ha visto la città protagonista assoluta. Per tutto lo scorso anno accademico gli studenti di PalermoLab hanno lavorato con i colleghi della scuola di Architettura e del Royal college di Londra e con gli studenti dell’University of technology di Delft, per un totale di 300 giovani impegnati nel progetto Hyper City – Augmented Palermo”.
Decine e decine di disegni, plastici, installazioni che rappresentano i possibili scenari, tutti realizzabili con risorse limitate ed eco-sostenibili, per “amplificare”, allargare, ripensare, spingere ‘oltre’ le aree urbanistiche della città. Con piani di riqualificazione del Waterfront e della circonvallazione, del centro storico e della VII circoscrizione, quella del quartiere San Filippo Neri e dintorni. Nella prospettiva di una città che dialoga con la natura e il commercio, con gli spazi per la cultura e l’arte. Gli studenti inglesi e olandesi hanno lavorato sull’idea di nuove anime per Palermo, una come territorio “sospeso”, dove è possibile ripensare persino Pizzo Sella, un’altra come città-giardino, e la terza, infine, come centro di condivisione della vita politica e istituzionale della comunità.
Ma prima della trasformazione in caserma l’edificio di piazza Sant’Antonino fu per tre secoli il convento dei francescani più vicino alla città, rispetto al più remoto complesso di Santa Maria di Gesù. Costruito nel 1630 da Mariano Smiriglio, nome molto attivo a Palermo per le committenze religiose dell’epoca, fu definito dallo storico dell’arte Gaspare Palermo come “un insieme di magnifiche fabbriche”. E in effetti il grande cortile quadrato, con un porticato scandito da colonne di billiemi, e i grandi saloni con volte a botta e a crociera, conferivano al complesso un’atmosfera di solenne imponenza, a dimostrazione dell’intenzione originaria di costruire il convento come fondale prospettico del lungo viale alberato aperto nel 1635, lo stradone di Alcalà, oggi via Lincoln, che risaliva dal mare.
Dopo il 1866, con la soppressione degli ordini religiosi e la confisca dei loro beni, il complesso divenne sede militare. Alla fine di questo secolo risalgono l’abbandono e lo smembramento delle sculture, quando i piani urbanistici della città cambiarono radicalmente con la costruzione della Stazione centrale e della grande piazza antistante. Il convento rischiò la demolizione, per fare spazio a nuove costruzioni attorno la stazione, ma alla fine rimase al suo posto, insieme con la chiesa.
Nei primi anni del Novecento, quindi, la trasformazione in “caserma della sussistenza” e l’installazione di un mulino. L’edificio fu modificato per essere adattato al nuovo uso: il loggiato chiuso con muratura per ricavarne magazzini, le grandi sale percorse da binari su cui correvano i carrelli che trasportavano da una parte all’altra prima il grano e poi il pane, le pareti innalzate e le scale spostate, le strutture di copertura in legno sostituite con solai in cemento armato. Infine, la rinascita, fino a diventare uno degli avamposti di archeologia industriale più significativi della città.