Seguendo l’antico corso del fiume Papireto, nel cuore del centro storico, c’è una piazza e un incrocio di strade, che rimandano a vicende sovrapposte nei secoli
di Emanuele Drago*

La recente alluvione di Palermo sembra aver rimesso al centro, soprattutto tra i semplici appassionati e i curiosi, la conoscenza del sottosuolo palermitano; un intreccio di canali, sorgenti e soprattutto di due importanti fiumi, il Papireto e il Kemonia, entrambi da secoli tombati. Uno di questi fiumi, tutt’oggi ancora esistente, sebbene ormai da cinque secoli incanalato, è il Papireto. Proprio seguendo l’ansa di questo antico fiume è possibile dar vita a un itinerario che in superficie si rivela sempre colmo d’inedite sorprese. Storie curiose, intricate, che in virtù della loro secolare stratificazione rivelano sempre un elemento nuovo.

Oggi la parte interna su cui si affacciavano le antiche mura, inglobate per lunghi tratti da una serie di palazzi dalla notevole altimetria, si dipana nelle attuali via Celso, salita Castellana e Sant’Antonino. Ma se il toponimo della via Castellana prende il nome dall’omonimo palazzo Bonanno Castellana (oggi in fase di restauro) e la salita Sant’Antonino dal fatto che sboccasse e ancora sbocca in prossimità della chiesa di Sant’Antonio Abate; più problematico, almeno fino a pochissimi anni fa, era invece comprendere l’origine del toponimo Celso.

In un primo tempo, come spesso accade quando nella nostra città qualcosa appare incomprensibile, si era creduto di spiegarne il significato come il risultato della corruzione del termine Shera (in arabo “terrazza”). Va detto infatti che la via, fino al XVI secolo, veniva chiamata Strada del Cancelliere o “Shera Cancellorum” in quanto in essa si trovava l’abitazione di Matteo D’Ajello, il cancelliere normanno di Guglielmo II, oltre ad altre abitazioni terrazzate che davano sul fiume e che presidiavano la città murata.

Ma qualche anno fa, mentre si cercava di ricostruire l’antica origine storica dell’attuale moschea, è stato possibile scoprire che il toponimo in realtà ha un’altra origine, legata alla chiesa cristiana che vi era allocata e che venne sostituita dall’attuale moschea tunisina. Infatti, dove oggi si trova la moschea si trovava la chiesa di San Paolino dei Giardinieri, edificata nel 1571 e dedicata al vescovo di Nola. Il santo era nato a Bordeaux e si era convertito al Cristianesimo grazie all’azione svolta dalla moglie Theresia. È stato sorprendente scoprire che il vescovo (conosciuto anche come il protettore dei giardinieri e dei campanari) avesse completato il proprio processo di conversione anche in seguito della morte, in tenerissima età, del figlio, il cui nome era appunto Celso.

La scoperta agiografica ha così rimesso tutto a posto, facendo chiarezza sul perché sul finire del Cinquecento il nome Celso (che per una strana coincidenza significa “elevato”, proprio come l’altimetria della zona) avesse sostituito quello di Shera Cancellorum. In buona sostanza, si trattava evidentemente di un atto di devozione che la città e la comunità dei giardinieri e campanari di Palermo volle fare nei riguardi del figlio del Santo.

E visto che ci siamo, è anche opportuno ricordare che il grande slargo su cui si affaccia l’attuale moschea di Palermo è un coacervo di storie che si susseguono nei secoli. Ad esempio, al centro della piazza, oggi v’è un grosso complesso scolastico, prima che venisse distrutta dalle bombe dell’ultimo conflitto mondiale, si trovava il monastero del gran cancelliere del regno di Guglielmo, ovvero quel Matteo D’Ajello a cui prima abbiamo accennato. Al monastero benedettino era annessa anche una chiesa, prima dedicata a Santa Maria dei Latini e poi rinominata del Cancelliere, la quale divenne nota in quanto custodì una preziosissima opera: una “icona magna” donata da Matteo D’Ajello al monastero, ricca di ben millecinquecento perle, che venne ribattezzata nel Seicento come “La Santissima Vergine imperlata di Palermo”

Invece, sul versante settentrionale della scuola e della moschea, per intenderci su via del Celso, dove oggi sorge un grande palazzo adibito a struttura alberghiera (tra l’altro restaurato grazie alla Fondazione Benetton e che ha portato alla luce importanti tracce della Palermo punica) furono rasi al suolo i palazzi Lanza, San Giacinto e San Gregorio. Il primo dei tre, a quanto pare, prima di passare ai Branciforti Lanza, nel Cinquecento era appartenuto al pisano Giorgio Bracco, pretore della città. Si narra che la domenica del 30 maggio del 1527, il palazzo fu al centro di un tragico evento. Durante le nozze del conte Giovanni Ventimiglia di Geraci, nipote di Giorgio Bracco, con Elisabetta Moncada Santocanale, il pavimento della sala da ballo cedette irreparabilmente, provocando la morte di decine di persone. E fu solo un caso che i giovani sposi, insieme al viceré Ettore Pignatelli, invitato per l’occasione, non si ritrovarono anch’essi sotto le macerie.

Un altro importante edificio che si affaccia ormai faticosamente sulla piazza è Palazzo Vanni di San Vincenzo. Ubicato di fronte ai palazzi Gualbes e Giardina, nel Settecento fu fra i più sontuosi, in quanto, in particolari circostanze, la facciata veniva agghindata a festa dal proprietario, il principe ed erudito Alessandro Vanni di San Vincenzo.
*Docente e scrittore