I mille volti di David Bowie negli scatti di Sukita

Si inaugura a Palermo una mostra fotografica che ripercorre la carriera artistica del “Duca Bianco”, ritratto dal maestro giapponese

di Antonio Schembri

Nel periodo in cui lui consolida il suo ruolo sul proscenio del rock, gli anni ’70, non sono stati pochi i musicisti che, pur con intensità molto differenti, hanno incendiato la scena artistica con la rapidità di asteroidi. La carriera di David Bowie, al secolo David Robert Jones, decollata alla fine degli anni ’60 da Brixton, malfamata area del South East di Londra, è durata invece mezzo secolo e si è conclusa solo con la sua scomparsa, poco meno di 4 anni fa a New York senza essere mai sceso dai piani più altolocati dell’iconografia pop.

A ripercorrerla sono i 103 scatti di Masayoshi Sukita, l’unico tra i tanti fotografi con cui Bowie abbia mai stretto e coltivato uno speciale sodalizio professionale, che da domani fino al 31 gennaio 2021 sono distribuiti in 8 saloni di Palazzo Sant’Elia, una delle sedi simboliche della difficile rinascita culturale di Palermo. Intitolata “Heroes – Bowie by Sukita”, la mostra è una retrospettiva avvincente anche per l’ambientazione: in mezzo alla bellezza barocca degli interni dell’edificio ubicato in fondo alla via Maqueda, contrasta il tratto visionario e intimistico delle fotografie, il 60 per cento delle quali sono in bianco e nero, con cui l’artista giapponese scandaglia la rutilante parabola creativa della rock star britannica.

Promossa e organizzata da Oeo Firenze Art e Le Nozze di Figaro, insieme con Fondazione Sant’Elia e patrocinata dal Comune e della Città Metropolitana di Palermo, la mostra è uno degli appuntamenti centrali del festival Le Vie dei Tesori (visite nei weekend, sabato e domenica, dalle 10 alle 17,30, qui per prenotare).

I fermi immagine di Sukita rivelano un rapporto speciale di collaborazione e amicizia con il Duca Bianco. Un dialogo praticamente muto ma direttissimo andato avanti per oltre 40 anni, solo con sguardi e silenzi, con rare incursioni di traduttori, dato che il fotografo originario di Fukuoka non parla l’inglese. Una storia che parte nel 1972 quando il fotoreporter, originario di una famiglia molto indigente e avvicinatosi alla fotografia durante l’adolescenza grazie al regalo di una modesta fotocamera ricevuto dalla madre, arriva a Londra per immortalare la band dei T-Rex, capitanata da Marc Bolan: sono i precursori del genere glam rock , quello che in seguito Bowie perfezionerà col suo talento visionario.

Sukita non conosce ancora l’eccentrico Mod in continua ascesa nella scena rock internazionale. Sa che, come tanti altri, si esibisce spesso nei più famosi spazi per eventi musicali del West End londinese, dall’Hammersmith Odeon all’Astoria. Rimane colpito dal manifesto promozionale di un concerto di Bowie che lo raffigura con una gamba alzata su uno sfondo nero e decide di andare a sentirlo. Grazie alla mediazione della stylist Yasuko Takahashi si accorda col cantautore per uno shooting. Da quel momento Sukita sosterrà sempre che “David Bowie non era un normale performer. In lui c’era tanta più profondità e immaginazione rispetto a un regolare musicista”.

Da quel primo incontro comincia una relazione artistica, protrattasi fino alla morte di Bowie. Provando ancora a definire la sua vita con immagini mutuate dallo Spazio – ciò che per la rock star è stato nel contempo mania e giacimento d’ispirazione (“Space Oddity”, è considerata da molti la sua migliore canzone, composta, si dice, di getto dopo aver visto al cinema “2001 Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick) – la voce e le composizioni di David Bowie hanno illuminato l’arte contemporanea come una intensa stella cometa: duratura e capace di dettare direzioni, ma, nel suo specifico caso, anche di disorientare, sorprendere, innovare a colpi di anticonformismo, continua ricerca dell’effetto e mutazioni così svariate e frequenti da rendere impossibile incasellarlo in uno stile. Molti sono stati i fotografi famosi che hanno puntato l’obiettivo sulle sue multiformi espressioni di uomo onnivoro anche di letture e dalla vasta conoscenza di arti e filosofie orientali.

Per Masayoshi Sukita quel viso dai lineamenti aristocratici, gli occhi gelidi dai colori spaiati (risultato, si dice, di una rissa giovanile per una ragazza), nonché le acconciature e i costumi coloratissimi, sono stati quasi un’ossessione: “Da quando ho cominciato a ritrarlo, non ho mai smesso di cercare David Bowie”. Lo dichiara, ancora oggi, Sukita, a 82 anni. Uno spaccato emozionante, questa mostra, di pezzi di vita di una delle più controverse leggende del rock. “Difficile scegliere la foto più suggestiva, lo sono tutte – dice la curatrice della mostra Vittoria Mainoldi – una però ha un retroscena singolare, quella che Sukita gli scatta nel periodo degli anni ’90 in cui Bowie porta la barba, look per lui inusuale. Bowie gli accorda l’appuntamento a condizione che il fotografo di moda, arrivando da Tokyo, gli procurasse in anteprima l’ultima opera prodotta in quel periodo da Ryuki Sakamoto, di cui sono entrambi amici stretti. Durante lo shooting, la rock star sta ascoltando la musica del compositore giapponese alle cuffiette, che non entrano nell’inquadratura e fissa l’obiettivo in trance da oltre mezz’ora. È la foto di Bowie rapito da Sakamoto”.

C’è anche uno scatto inedito: si intitola “Clock” e raffigura il cantante al centro di un orologio su cui sono segnate soltanto 10 ore, a simboleggiare l’esiguità del tempo. Di sé David Bowie usava dire, minimizzando: “Io sono una faccia e una voce”. Espressioni dolci e fragili, dure e ciniche di un talento immenso, manifestato con testi, strumenti (era capace di suonarne 11, a cominciare da sassofono e violoncello) ma anche mediante apprezzate incursioni nel cinema e nel teatro. Presenza scenica esplosiva, con tanti alter ego: dal personaggio di inizio carriera, abile a dare di sé un’immagine androgina e decadente, a Ziggy Stardust, l’alieno proveniente da Marte con i suoi capelli verde arancio: lo stesso che Bowie impersona nel film “Un uomo caduto sulla Terra”; per ritrovare, più avanti, il dandy, ancora più raffinato e ambiguo, al punto da rappresentare ormai anche un’icona gay, del suo periodo berlinese: il triennio 1977- 79, trascorso con Iggy Pop in una abitazione vicina al Muro, nel quale i due si disintossicano dalle droghe e lavorano assieme sul pentagramma.

Avviene lo stesso, sempre a Berlino Ovest, con un altro collaboratore d’eccezione, Brian Eno. Sinergie che portano Bowie a realizzare altri 3 album iconici, “Low”, “Heroes” e “Lodger”. E a rientrare nel mondo della celluloide: sulle note di alcuni suoi brani, tra cui lo stesso “Heroes”, il suo pezzo più celebre, lo si ricorda in alcuni spezzoni di ‘”Christiane F. – Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino”, scioccante film-documento del 1981 sulla diffusione delle droghe pesanti tra i giovanissimi. Una carriera in cui si susseguono svariati momenti artistici contrassegnati da partnership prestigiose. Con Nile Rodgers degli Chic e di nuovo con Iggy Pop, sfociati in hit inconfondibili rimasti a lungo ai vertici delle classifiche discografiche, come Let’s Dance e China Girl.

Pezzi che, insieme con moltissimi altri, accompagnano la visita davanti alla carrellata fotografica su sguardi espressioni e posture di questo artista dalla personalità straripante; espressa anche, come se non bastasse, sul proscenio dell’immagine e della pubblicità con Andy Warhol, della cui “Factory”, nel cuore della Grande Mela, Bowie è stato assiduo. Romantico, decadente, poliedrico, totalmente anticonformista: un universo a sé stante quello posto da David Bowie nella storia del rock e nella cultura pop. Un astro dalla luce irriducibile, alla formazione del cui mito le messe a fuoco di Masayoshi Sukita sono state essenziali.

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