I bevai di campagna, pezzi di storia contadina da salvare

Luoghi di sosta per braccianti e animali, sono tantissimi in Sicilia gli antichi abbeveratoi che stanno scomparendo, specchio di una cultura in declino

di Beniamino Biondi

Il termine abbeveratoio, per la sua genericità, circoscrive un elemento che è determinato per le sue funzioni, quanto indeterminato per la sua stessa immagine, differente per il modo proprio in cui ciascuno lo pensa: cioè che a pensarlo, un abbeveratoio, ognuno di noi ne avrà un’idea irriconducibile a elementi invarianti e a una forma comune. Per molti è tale la Granfonte di Leonforte, che invece è una fontana monumentale, per certi aspetti la più bella della Sicilia, nel suo stile rinascimentale-barocco voluto dal principe Nicolò Placido Branciforti che la fece costruire sui resti di un’antica fontana araba chiamata “Fonte di Tavi”.

La Granfonte a Leonforte

La Granfonte era anche un bevaio pubblico, ma soprattutto il genius loci di una comunità, il luogo di ritrovo – e cioè di scambio, di civiltà – di un intero paese. È una fontana di rara bellezza, che, attribuibile all’architetto palermitano Mariano Smiriglio – protagonista di una preziosa stagione dell’arte siciliana -, si rifà alle numerose creazioni di artisti fiamminghi allora molto diffuse nell’Isola. Con le sue arcatelle aperte a tutto sesto che lasciano intravedere il paesaggio agreste sottostante, dalla Granfonte sboccano 24 cannelle di bronzo da cui sgorga un’acqua limpidissima che si raccoglie – tranne che per il Venerdì Santo, in segno di lutto per la morte di Cristo – nella sottostante vasca rettangolare.

La Granfonte

Per i leonfortesi, che pare custodiscano tutti nelle loro case una riproduzione della fontana, questo luogo è il simbolo della stessa memoria del paese, il segno materiale di un rapporto intenso con le proprie radici. Fatto questo riferimento prezioso alla Granfonte, è solo per escludere la tipologia delle fontane monumentali, cioè tipicamente urbane, dalle vere e proprie “brivature”, tipiche degli ambienti rurali e di solito caratterizzate da una grossa vasca in pietra utilizzata per il ristoro gli animali. Se dentro i paesi assumevano spesso la funzione di lavatoi pubblici, ubicate all’interno dei nuclei urbani come luoghi aperti di aggregazione sociale, più spesso in aperta campagna erano luoghi di raccolta di acque sorgive limitrofe a proprietà private o ad aree di servitù. Con la realizzazione dei primi acquedotti, molte “brivature” sono state progressivamente abbandonate e in diversi casi demolite per allargamenti stradali o rimosse per obsolescenza, conservando le altre – quasi per caso, senza intenzione – come singoli elementi puntuali ancora in uso.

Bevaio nelle campagne di Raffadali

Questi bevai sono la testimonianza più nobile, e per molti aspetti poetica, della civiltà contadina, come luoghi di sosta per gli animali da soma (soprattutto muli e asini, come capre, pecore e buoi) e per gli stessi braccianti che rientravano dal faticoso lavoro nei campi; e per le donne, che lì riempivano le “lancedde” e i “bummuli” di preziosa acqua. Insomma, le “brivature” sono ancora oggi un elemento della storia sociale della civiltà agricola – costruite grazie alle maestranze artigiane locali, che hanno dato grande prova della loro capacità di sapere lavorare la pietra locale -, e, nel loro attuale abbandono, nella solitudine che li costringe alla resa, dentro i varchi incorrotti dell’entroterra più caratteristico, si fanno esemplari di pietra di un’antica cultura che ha negato sé stessa, disfacendo le comunità.

Il bevaio cinquecentesco a Raffadali

È l’immagine della astoricità contadina, della rinunzia a una civiltà che ha coinciso con l’eclisse della cultura umanistica, cioè con quelle “culture particolari” intorno a cui ha scritto pagine illuminanti Pier Paolo Pasolini. Così le “brivature”, che pochissimo hanno ottenuto in termini di studi storiografici rigorosi e documentati, si sono lastricate di melma e depredate dalle erbacce, sono solamente un antico ricordo, squisitamente povero, della vecchia riforma agraria in Sicilia. Ecco, è proprio un’immagine mitica dell’Isola: come in un film di Pietro Germi, nel bianco e nero contrastato dalla luce, entro i campi lunghi di un paesaggio desolato e taciturno, in una pausa secolare della storia, lì appaiono le “brivature”. Ne portiamo ad esempio una, posta in aperta campagna, vicino a Raffadali, laddove la terra incolta sembra un tragico ritorno del latifondo.

Gebbia nelle campagne siciliane

È posta nell’angolo di un vallone, a pochi passi da un anfratto, vicino a una vecchia masseria abbandonata che richiama una vita intensa e operosa di cui non rimane più alcuna traccia visibile. Eppure questo bevaio è lì, schiacciato dalla natura, con l’acqua che scorre a filo tenue resistendo alle stagioni, ed è un vero e proprio monumento che andrebbe subito recuperato, insieme a tutti gli altri, a futura memoria della dignità del lavoro contadino. In più, ha due caratteristiche che lo rendono unico: la sua costruzione risale al 1500, ed ha una forma vagamente antropomorfa, ricordando un essere umano con le braccia e le gambe composte che dal busto ai piedi si compone di vasche sempre più piccole. È un vero e proprio capolavoro, senza mezzi termini; e la Sicilia, nella sua ansia labiale di tutela e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali, troppo spesso non si pone il problema di dove sia la bellezza autentica e di dove si trova la cultura, guardando altrove.

Abbeveratoio a Niscemi

L’abbandono di questa meravigliosa “brivatura” pone un problema serissimo agli enti pubblici e alle soprintendenze – per estensione, di tutta l’Isola -, perché si dovrebbe salvare la nostra storia anche quando essa rimane lì dov’è, non traslata scenograficamente in qualche museo. L’abbandono di questo luogo sottende un lungo senso di colpa, un esemplare triste e magnifico del modo in cui si perde il nostro patrimonio, sconfitto dalla pedagogia di massa e dal silenzio dell’amore.

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