“Case chiuse”, luci rosse a Palermo

Una delle più celebri era quella “delle rose” al Politeama, ma era riservata ai più ricchi. Per i meno danarosi c’erano quelle di vicolo Marotta. Viaggio a ritroso nella città del piacere condotto dall’antropologa Flavia Corso.

di Federica Certa

La sera si andava alla Casa delle rose, al Politeama. Ma solo per clienti altolocati con denaro da spendere, alti prelati, imprenditori, i rampolli delle famiglie più in vista, che cercavano, tra i calici di champagne, i broccati e i lampadari di Murano della casa di appuntamenti più rinomata di Palermo, il viatico alla vita che l’educazione familiare non poteva dargli. Diritti e doveri: le ragazze più belle, gli arredi più costosi, servizio impeccabile da quando si varcava la soglia a quando si lasciava l’antro del piacere. Ma era obbligatorio lavarsi, prima e dopo.
Se invece i soldi erano pochi, si veniva dalle campagne o si viveva di un modesto stipendio pubblico, le aspettative calavano, il livello della casa scendeva da extralusso a medio-basso, si doveva rinunciare alla corrente elettrica e al riscaldamento in camera. A volte anche al sapone e all’asciugamano.
Cronache dalla Palermo “sommersa” del sesso a pagamento, da fine ‘800, quando aprivano le prime case chiuse, al 1958, l’anno della legge Merlin, che doveva mettere i sigilli al meretricio in appartamento e porre fine allo sfruttamento dello Stato sulle donne di vita. Ma le case chiuse, in città, non si erano estinte, e tante ne erano rimaste, abusive e più o meno nascoste.
Flavia Corso, antropologa ed esperta di tradizioni siciliane, presidente dell’associazione “Tacus”, ha studiato epoche, segreti, tariffe, soprattutto luoghi della città a luci rosse. Il tema intriga, e di storie da raccontare ce ne sono molte. Tanto che Corso ha dedicato all’argomento due anni di ricerche, partendo dai testi dello storico siciliano Antonino Cutrera, spulciando tra i documenti dell’Archivio di Stato, della Biblioteca regionale e della Questura, ma anche attingendo ai diari, alle lettere e alle testimonianze dirette di prostitute ormai abbondantemente in pensione e di clienti vegliardi, che quelle stagioni di commerci licenziosi le ricordano ancora.
“A Palermo – spiega – le aree occupate dalle circa cento case di appuntamento erano ben definite. In piazza S. Domenico, per esempio, e nel cosiddetto borgo degli Amalfitani, che corrisponde più o meno alla zona della fonderia Oretea. Questo era un vero e proprio distretto della prostituzione, che poteva contare sui clienti che sbarcavano al vicino porto. Poi c’erano via dei Candelai e soprattutto vicolo Marotta, tra corso Vittorio e via del Celso, una meta nota a molti, che fino agli anni ’70 ha ospitato case abusive. Nel centro storico il servizio era per lo più di livello medio-basso, mentre in piazza Marina e in via Lungarini c’erano due case di lusso, casa Valido e casa Igiea, che tuttavia con la seconda guerra mondiale, persa la clientela dei gerarchi fascisti, si erano ridimensionate”.
Si andava dalla prestazione “base”, da cinque minuti soltanto, alla “doppia”, che poteva arrivare anche a 15. E poi c’erano le tariffe più care, la mezz’ora e un’ora “che in pochi però – dice Corso – potevano permettersi”. Qualsiasi altra opzione era fuori dal tariffario, “dal rapporto a tre al servizio in camera. In questi e altri casi il prezzo veniva stabilito dalla maitresse”.
L’andazzo, al di là degli “optional” offerti dalle case di livello più alto, era più o meno sempre lo stesso. Le ragazze conducevano, paradossalmente, una vita monacale, “era quasi una prigione, con sporadici contatti con l’esterno e una situazione economica tutt’altro che florida”.
Poi, ogni due settimane, scattava la “quindicina” e le prostitute passavano da una casa all’altra, “per evitare che i clienti abituali si affezionassero troppo – sottolinea la studiosa – ma anche per far girare i soldi”.
Il giro di boa coincide con la prima guerra mondiale. “Prima di allora – racconta Corso – a Palermo le case erano autogestite dalle donne, che accoglievano così ragazze abbandonate dal fidanzato, violentate o ripudiate dalle famiglie, che avevano come unica alternativa alla prostituzione il monastero. Poi, con l’avvento della Grande Guerra, l’età delle prostitute si alza oltre i 35 anni, e subentrano le tenutarie. Le donne sono spesso vedove, o mogli con il marito al fronte, che devono rimboccarsi le maniche e sfamare i figli”. Ma era una vita agra. “Appena entravano erano già indebitate, perché dovevano pagare l’affitto della stanza alla maitresse. E di tasca propria acquistavano anche profumi, saponi, trucchi e abiti, insomma i ferri del mestiere”.
E qual era – se ne esisteva una – la “specificità” palermitana ? “L’accoglienza – risponde l’antropologa –. Rispetto ad altre città, da noi il cliente veniva coccolato di più, a partire dalla sala d’attesa,. Era pratica comune offrirgli da bere, biscotti e pasticcini mentre aspettava la ragazza prescelta”.

Una delle più celebri era quella “delle rose” al Politeama, ma era riservata ai più ricchi. Per i meno danarosi c’erano quelle di vicolo Marotta. Viaggio a ritroso nella città del piacere condotto dall’antropologa Flavia Corso.

di Federica Certa

La sera si andava alla Casa delle rose, al Politeama. Ma solo per clienti altolocati con denaro da spendere, alti prelati, imprenditori, i rampolli delle famiglie più in vista, che cercavano, tra i calici di champagne, i broccati e i lampadari di Murano della casa di appuntamenti più rinomata di Palermo, il viatico alla vita che l’educazione familiare non poteva dargli. Diritti e doveri: le ragazze più belle, gli arredi più costosi, servizio impeccabile da quando si varcava la soglia a quando si lasciava l’antro del piacere. Ma era obbligatorio lavarsi, prima e dopo.
Se invece i soldi erano pochi, si veniva dalle campagne o si viveva di un modesto stipendio pubblico, le aspettative calavano, il livello della casa scendeva da extralusso a medio-basso, si doveva rinunciare alla corrente elettrica e al riscaldamento in camera. A volte anche al sapone e all’asciugamano.
Cronache dalla Palermo “sommersa” del sesso a pagamento, da fine ‘800, quando aprivano le prime case chiuse, al 1958, l’anno della legge Merlin, che doveva mettere i sigilli al meretricio in appartamento e porre fine allo sfruttamento dello Stato sulle donne di vita. Ma le case chiuse, in città, non si erano estinte, e tante ne erano rimaste, abusive e più o meno nascoste.
Flavia Corso, antropologa ed esperta di tradizioni siciliane, presidente dell’associazione “Tacus”, ha studiato epoche, segreti, tariffe, soprattutto luoghi della città a luci rosse e ha organizzato una “passeggiata” di due ore e mezza alla scoperta dei vicoli, delle strade e dei palazzi dove si vendevano le prostitute palermitane. L’appuntamento è per domenica 23, a partire dalle 20.30. Iscrizioni aperte fino alle 16 del 22, chiamando il numero 320-2267975. Contributo libero.
Il tema intriga, e di storie da raccontare ce ne sono molte. Tanto che Corso ha dedicato all’argomento due anni di ricerche, partendo dai testi dello storico siciliano Antonino Cutrera, spulciando tra i documenti dell’Archivio di Stato, della Biblioteca regionale e della Questura, ma anche attingendo ai diari, alle lettere e alle testimonianze dirette di prostitute ormai abbondantemente in pensione e di clienti vegliardi, che quelle stagioni di commerci licenziosi le ricordano ancora.
“A Palermo – spiega – le aree occupate dalle circa cento case di appuntamento erano ben definite. In piazza S. Domenico, per esempio, e nel cosiddetto borgo degli Amalfitani, che corrisponde più o meno alla zona della fonderia Oretea. Questo era un vero e proprio distretto della prostituzione, che poteva contare sui clienti che sbarcavano al vicino porto. Poi c’erano via dei Candelai e soprattutto vicolo Marotta, tra corso Vittorio e via del Celso, una meta nota a molti, che fino agli anni ’70 ha ospitato case abusive. Nel centro storico il servizio era per lo più di livello medio-basso, mentre in piazza Marina e in via Lungarini c’erano due case di lusso, casa Valido e casa Igiea, che tuttavia con la seconda guerra mondiale, persa la clientela dei gerarchi fascisti, si erano ridimensionate”.
Si andava dalla prestazione “base”, da cinque minuti soltanto, alla “doppia”, che poteva arrivare anche a 15. E poi c’erano le tariffe più care, la mezz’ora e un’ora “che in pochi però – dice Corso – potevano permettersi”. Qualsiasi altra opzione era fuori dal tariffario, “dal rapporto a tre al servizio in camera. In questi e altri casi il prezzo veniva stabilito dalla maitresse”.
L’andazzo, al di là degli “optional” offerti dalle case di livello più alto, era più o meno sempre lo stesso. Le ragazze conducevano, paradossalmente, una vita monacale, “era quasi una prigione, con sporadici contatti con l’esterno e una situazione economica tutt’altro che florida”.
Poi, ogni due settimane, scattava la “quindicina” e le prostitute passavano da una casa all’altra, “per evitare che i clienti abituali si affezionassero troppo – sottolinea la studiosa – ma anche per far girare i soldi”.
Il giro di boa coincide con la prima guerra mondiale. “Prima di allora – racconta Corso – a Palermo le case erano autogestite dalle donne, che accoglievano così ragazze abbandonate dal fidanzato, violentate o ripudiate dalle famiglie, che avevano come unica alternativa alla prostituzione il monastero. Poi, con l’avvento della Grande Guerra, l’età delle prostitute si alza oltre i 35 anni, e subentrano le tenutarie. Le donne sono spesso vedove, o mogli con il marito al fronte, che devono rimboccarsi le maniche e sfamare i figli”. Ma era una vita agra. “Appena entravano erano già indebitate, perché dovevano pagare l’affitto della stanza alla maitresse. E di tasca propria acquistavano anche profumi, saponi, trucchi e abiti, insomma i ferri del mestiere”.
E qual era – se ne esisteva una – la “specificità” palermitana ? “L’accoglienza – risponde l’antropologa –. Rispetto ad altre città, da noi il cliente veniva coccolato di più, a partire dalla sala d’attesa,. Era pratica comune offrirgli da bere, biscotti e pasticcini mentre aspettava la ragazza prescelta”.

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