Un tesoro quasi sconosciuto nel colle di Girgenti, che regala un panorama mozzafiato. Un tempo destinato a carcere, adesso è in attesa di rinascere
di Beniamino Biondi

La fisionomia di Agrigento come città doppia – cioè pirandelliana, singolare e multipla – non si esplicita solamente nel rapporto di alterità speculare tra Akragas – in cui si estendevano l’abitato e i monumenti pubblici antichi – e Agrigento, tra la città greca e la città medievale, ma anche nella relazione di frontalità assoluta tra le due colline della città, la Rupe Atenea con la sua acropoli quasi certamente del periodo greco, e il colle di Girgenti. E però, a ben vedere, il rapporto di specularità fotografica tra i due luoghi pone la misteriosa Rupe non di fronte alla Cattedrale ma al Castello. Senza sbavature, lungo un asse perfetto, come due manti di tufo cauti e prudenti nel loro secolare immobilismo.

Ad Agrigento, in pochissimi conoscono il Castello; i più non ne hanno mai nemmeno sentito parlare, e le notizie scarse e incidentali vi conducono pochi turisti, isolati e smarriti, su un luogo che quasi non esiste. Se questo Castello ha un mistero, la sua natura appartata lo tiene ben custodito. Ubicato al vertice del tessuto urbano, fu costruito dagli arabi nel X secolo e ripreso da Ruggero per assicurare il controllo della città musulmana appena conquistata, servendo da base per completare la conquista della zona. Com’è naturale, il Castello sfruttava la posizione favorevole del sito, un rilievo naturalmente difeso, e purtroppo oggi ne rimangono pochissimi avanzi, le cui rovine – di proprietà comunale – sono state ulteriormente stravolte dalla costruzione di un serbatoio idrico.

Per arrivarci esistono due differenti strade, l’una chiara e l’altra occulta. Quest’ultima è una porticina che si apre dal museo di Sant’Alfonso, fra scale e corridoi, attraversando numerosi ambienti e nicchie, con il consenso di chi accoglie al museo stesso. L’altra, pubblica, si trova immediatamente all’imbocco della via Duomo, sulla destra. È una curva perfettamente angolare, e dunque poco visibile, che pare quasi si spenga all’accesso di un cortiletto con un pugno di case intorno, ma in realtà si comprime poi a una ripidissima salita che prosegua con una sterzata a gomito fino alla cima, dove si oltrepassa un cancello sempre aperto che immette a un pianoro desolato e incolto.
Ecco che la vista domina il centro storico, i suoi tetti scomposti, i terrazzamenti di una meravigliosa villa con giardino abbandonata, e soprattutto – lontana – la Rupe Atenea, incastrata allo sguardo da una florida palma. È un’Agrigento insolita dal suo angolo più riposto, nell’idea curiosa che i luoghi meglio nascosti sono proprio quelli più esposti. Del Castello sono visibili le ultime tracce, mortificate da un’orrenda casupola in cemento che in tempi lontani servì da piccolo ufficio per gli impiegati del servizio idrico. Uno scempio inutile, atrocemente disturbante, il residuo di un paese che ha ceduto alla bruttezza chiamandola modernità.

Ma per converso, è proprio questo tugurio quadrato che fa risaltare la bellezza del posto, che continua per un piccolo corridoio a due brevi rampe di scale che conducono sul punto più alto del Castello, una vasta area pianeggiante con un lungo muretto basso di tufo che la recinta per ogni suo lato. Uno spettacolo della natura e della storia, non soltanto per la vista che abbraccia il mare con le due città, ma per il senso di altitudine che dona questa sommità a confronto con il precipizio che da un lato si staglia a vuoto sul dorso della collina. Il campanile di Sant’Alfonso è lì a due passi, quasi a toccarlo con le dita, e Agrigento emerge al ristoro di un silenzio senza eguali. Se la città volesse dotarsi di un belvedere, è questo il posto; ideale, nella misura in cui è perfettamente naturale. E andrebbe recuperato senza ulteriori attese, abbisognando solo di qualche pulizia e della sistemazione dei gradini sbrecciati, un presidio minimo di sicurezza e una tavola di notizie per i turisti.

Se le condizioni del Castello sono di disfacimento totale, sull’aspetto strutturale del fortilizio in epoca normanna, Malaterra utilizza le due parole “turres et propugnacula che evocano l’esistenza di una cinta munita di torri; mentre le rappresentazioni grafiche, elaborate a partire dal XVI secolo, raffigurano un complesso a pianta assimilabile a quella di un trapezio isoscele, con corte interna, due torri di cortina e vari corpi di fabbrica addossati alle mura perimetrali”. Di più, il Castello richiama alla memoria la funzione che più tardivamente ebbe come prigione di Girgenti – e difatti alcuni lo citano anche come carcere vecchio – fino all’anno 1866, con poche piccole stanze, alcuni cameroni e una grande corte per la vita comune dei detenuti.

La vera sorpresa di questo luogo, soprattutto nel suo punto più alto, è la possibilità di osservare da vicino e pressoché per intero il corpo della chiesa dell’Itria: tetto cadente, balconi ammalorati, pertugi inselvatichiti, eppure tra le cose più belle che sia possibile vedere nel cuore antico di Agrigento. In origine nota come Madonna Odigitria, con annesso il convento dei Padri Redentoristi – altrettanto visibile -, la chiesa è a navata unica e di stile barocco con prospetto e portale manieristi. Edificata alla fine del ‘500, nel 1761 venne ceduta ai Padri Redentoristi che la tennero fino alla prima metà dell’800, ma, in seguito alla realizzazione della chiesa di Sant’Alfonso, fu venduta come casa in rovina insieme al giardino.
Il Castello di Agrigento è anche il racconto di questa storia – insieme agli arabi e a Ruggero, ai lamenti dei carcerati e agli aromi delle erbe spontanee, al vento tra le rovine e all’orgoglio di una città ideale – lontana, come un tragico mito, a un presente di devastazione e incuria che ci auguriamo presto venga risolto, se anche la bellezza è una scelta civile.